L’espansione tumultuosa degli impianti per la produzione di biogas, realizzatasi a partire dallo scorso decennio, sembra avere raggiunto una fase di maturità e di stabilità, almeno per quanto riguarda i numeri. Anche gli insediamenti più recenti hanno già sperimentato almeno una revisione generale – un evento economicamente e finanziariamente rilevante – vero banco di prova della solidità e delle capacità organizzative dell’impresa.
Le aziende partite su una base precaria – che avevano visto nell’investimento e negli incentivi una improbabile soluzione ai loro problemi – sono andate in crisi e sono passate di mano, acquisite da società specializzate, non sempre di estrazione agricola.
Il settore ha sofferto di gravi errori di programmazione, sia riguardo alla tariffa incentivante, da più parti giudicata eccessiva, sia per non avere correlato fin dall’inizio la produzione di biogas con il reimpiego di residui e di sottoprodotti della zootecnia.
Tale interpretazione era figlia di posizioni ideologiche che consideravano il recupero dei prodotti secondari – come i reflui zootecnici – uno strumento per smaltire sostanze sgradevoli; la legittimità del processo si prestava infatti ad un impiego illecito. Prima della modifica dei requisiti sorsero, o furono autorizzati, numerosi impianti alimentati solo da colture dedicate, con un effetto doppiamente negativo:
- per l’impresa, soggetta alle fluttuazioni del mercato dei cereali;
- per il territorio, a causa della contrazione delle colture da granella (300-400 ha per ogni MW di potenza elettrica resa) e del relativo indotto.
Non a caso il legislatore provvide, seppure in ritardo, a emettere requisiti più stringenti per i nuovi progetti, ma ormai la frittata era fatta: in certe aree geografiche l’indotto cerealicolo ha subito una forte contrazione, specialmente per la mietitrebbiatura, per l’essiccazione e per lo stoccaggio.
Diversi contoterzisti in difficoltà
In termini quantitativi un impianto da un megawatt – alimentato esclusivamente a mais – comporta la perdita di quasi 5mila tonnellate di granella (350 ha per 14 t/ha); dove gli impianti si sono diffusi in modo più capillare la filiera ha accusato un duro colpo. Diversi contoterzisti, specializzati nella raccolta del mais da granella si sono trovati senza lavoro: accanto a chi ha scelto di dedicarsi alla trinciatura, affrontando investimenti di notevole entità, c’è stato chi si è riconvertito in altri settori e chi ha preferito ritirarsi.
Un danno economico simile a quello subito dopo la ristrutturazione – ma sarebbe meglio chiamarla dismissione – del settore bieticolo, senza però alcun ammortizzatore; se per lo zucchero il governo aveva corrisposto un indennizzo (circa 40 milioni), chi ha perso il lavoro a seguito di una politica energetica sbagliata non ha ricevuto nulla. Un esempio che mostra ancora una volta come chi prende le decisioni sul futuro dell’agricoltura non sa come questa funziona nel presente, ma è legato a una visione medievale in cui l’agricoltore, come un antico feudatario, si fa tutto da solo. Per il biogas (come per ogni altra produzione agricola, zootecnica o agrituristica), l’imprenditore agricolo si limita a svolgere solo alcune funzioni, delegando al contoterzista tutto ciò che richiede una specifica competenza professionale, dalla gestione delle colture dedicate a quella del digestato.
Non è facile organizzare la trinciatura, il trasporto e l’insilamento, così come gestire lo spandimento dei reflui, barcamenandosi nella giungla dei divieti, delle aree vulnerabili e delle fasce di rispetto; e senza contare l’interramento, divenuto ormai obbligatorio. Solo chi vive di meccanizzazione è capace di coordinare questa complessa giostra, in cui ogni macchina deve muoversi in perfetta sincronia, e di prevedere le azioni correttive per bilanciare i rispettivi tempi di lavoro. Un rapporto, quello fra agromeccanico e impianto, che nel tempo è diventato sempre più stretto, fino a trasformarsi in un vero e proprio contratto di appalto di tutti i servizi; è frequente il caso di contoterzisti che si dedicano anche all’alimentazione e alla sorveglianza dell’impianto.
Ciò si verifica non solo negli impianti asserviti a un allevamento, ma anche in quelli alimentati esclusivamente da colture dedicate, dove la qualità dell’insilato si misura in chilowatt e in euro, guadagnati o perduti.
Il rapporto di connessione
Se la presenza di un contoterzista professionale è il supporto indispensabile sul piano tecnico e operativo, non devono mancare consulenti esperti e preparati per gestire in modo corretto la fase agronomica e quella amministrativa.
Non è scontato, nel senso che più di un impianto ha avuto le sue difficoltà proprio in questi settori: rese in metano insufficienti, piani di spandimento approssimativi, rapporti non corretti con i fornitori di prodotti e di servizi hanno portato diverse aziende alla chiusura.
Un caso frequente è quello del mancato rispetto del rapporto di connessione: alcuni incentivi, alla produzione o alla fase di avvio, sono legittimi solo se l’attività di produzione energetica è connessa con quella agricola.
Per questo non ha rilevanza solo la localizzazione dell’impianto (all’interno dei fondi condotti), ma soprattutto se la maggior parte dell’energia venduta al Gse (Gestore dei servizi elettrici) deriva dalle biomasse di propria produzione.
Se per motivi di bilancio si decide di dedicare una quota della superficie a colture diverse, non destinate ad alimentare il digestore, e si acquistano sul mercato i cereali o le biomasse da insilare, può capitare che i limiti vengano superati e l’impianto non si trovi più in regime di connessione.
In tal caso si concretizza una possibile evasione fiscale, dovuta al fatto che la produzione di tutta l’energia deve essere tassata a bilancio, invece della sola quota eccedente quella prodotta con una potenza impegnata di 200 kwh; inoltre possono venire disconosciute altre provvidenze riservate agli impianti connessi all’agricoltura, come l’esenzione Imu o Irap.
Acquisto di prodotti in piedi
L’approvvigionamento di biomasse prodotte fuori dall’azienda agricola titolare dell’impianto avviene tramite l’acquisto di prodotto “in piedi”, ossia di campi già seminati (solitamente a mais) da altri agricoltori e che l’acquirente dovrà raccogliere a sue spese.
La formula, sotto il profilo giuridico, pone qualche dubbio. Non è un acquisto puro e semplice, in quanto l’acquirente si assume diversi rischi sulla coltivazione (malattie, eventi atmosferici) e sulle lavorazioni; dato che il trinciato non si adopera tal quale, ci si mette anche l’insilamento, non riconducibile alla mera conservazione in quanto il prodotto subisce varie trasformazioni fisiche e chimiche.
Forse, più correttamente, si tratta di un affitto temporaneo, in quanto si acquisisce un terreno, più che un prodotto, sul quale dovranno essere svolti diversi interventi colturali, accollandosi i rischi propri di un conduttore di fondo rustico, più che quelli di natura commerciale.
Naturalmente chi vende il mais non vuole sentirne parlare, perché potrebbe perdere i contributi Pac e forse anche qualcosa di più, come parte dell’assegnazione di gasolio, o la violazione del divieto di subaffitto, nel caso sia egli stesso affittuario.
Queste obiezioni però non mutano la natura del contratto: se è un affitto, anche temporaneo, non diventa una vendita solo perché toglie qualche agevolazione all’azienda agricola; verrebbe anzi da sospettare il dolo perché le varietà da insilato (e da biogas...) sono ben diverse da quelle da granella.
Il problema – anche se finora non se ne è parlato – riguarda direttamente l’impresa agromeccanica che, salvo poche eccezioni, viene incaricato dall’acquirente, gestore dell’impianto, di effettuare tutte le lavorazioni fino al riempimento del silo.
Lavorazioni che, pur essendo oggettivamente agricole, mancano del requisito soggettivo per poter godere dell’agevolazione sul gasolio; a norma di legge, l’agricoltore ha diritto a godere di tale agevolazione solo se i terreni oggetto di lavorazione sono iscritti in anagrafe a suo nome.
Diverse regioni – fra cui il Veneto, sulla scorta di un parere dell’Agenzia delle Dogane – hanno interpretato la norma in modo restrittivo, sostenendo che se non è legittimo l’uso del gasolio agricolo per l’agricoltore, non lo è neppure per l’agromeccanico che lavora per lui.
In caso di acquisto di prodotto in piedi il terreno non può essere iscritto nell’anagrafe dell’acquirente (lo sarebbe solo in caso di affitto), e quindi, secondo tale interpretazione, l’agevolazione sul gasolio non spetta né all’agricoltore né al contoterzista.
Si raccomanda quindi di porre la massima attenzione al riguardo, tenendo conto che la raccolta del mais dà luogo a forti consumi per ettaro (fra trinciatura, trasporti e insilamento) che non possono essere giustificati in sede di rendicontazione del gasolio prelevato.
Ciò presuppone che, in sede di contrattazione con l’azienda titolare dell’impianto, si chiarisca che per i terreni non iscritti in anagrafe l’impresa agromeccanica dovrà maggiorare il prezzo di € 48,00 per ogni 100 litri consumati, corrispondenti al differenziale fra gasolio agevolato e “autotrazione”.