Conservazione e innovazione

L’agricoltura conservativa è tutto fuorché conservatrice. Vediamo perché

Il significato che attribuiamo alle parole può essere diverso da quello che intende chi le pronuncia e, talvolta, l’equivoco può essere il frutto di un complesso lavoro per far capire all’interlocutore una cosa diversa da quella che in realtà gli viene comunicata. Senza arrivare ai casi di inganno deliberato, assai più spesso accade che certe espressioni vengano usate con tale frequenza da farci perdere il collegamento con il loro significato originario e con il ragionamento che ci stava dietro.

Quando diciamo “agricoltura conservativa” ci rendiamo conto di cosa davvero vogliamo conservare e a cosa siamo disposti a rinunciare?
Da un certo punto di vista, l’agricoltura conservativa è tutto fuorché conservatrice, nel senso che stravolge numerosi principi dell’agricoltura convenzionale: ma al di là del suo grado di innovazione, resta aperto l’interrogativo sull’oggetto della conservazione. Lo stesso aggettivo “convenzionale” non ha un valore assoluto, ma deve essere collocato in un preciso contesto temporale, geografico e culturale (con la u), prima ancora che colturale.

Ammettiamo di considerare convenzionale un modello agricolo fondato su un uso razionale delle risorse, legato al progresso scientifico, all’evoluzione della genetica e della tecnica agronomica, in un contesto mondiale di libero mercato e di relativa disponibilità di tutti i mezzi di produzione. Considerando il fatto che l’agricoltura ha impatto ambientale complessivamente positivo, nel senso che la fotosintesi estrae anidride carbonica dall’ambiente e produce carbonio organico da cui è possibile ricavare cibo ed energia, neppure il regime convenzionale ha una connotazione negativa.

L’agricoltura conservativa non è una tecnica “negativa” che dice no a tutto ciò che è innovazione, ma una scelta positiva che cerca di dare il massimo valore alle risorse senza sprecare nulla

In questo senso è forse l’unica attività produttiva che consuma minori risorse, proprio per il fatto di essere sostenuta dall’energia fornita dal sole e da risorse, come l’atmosfera, la terra e le acque, che vengono sì impiegate, ma tornano in circolo e possono essere riutilizzate.
In realtà il modello agricolo convenzionale può essere perfezionato, intervenendo su quei fattori della produzione che non sono completamente rinnovabili (per esempio l’energia da fonti fossili) e su quelli di cui si può migliorare l’efficienza. In questi casi il concetto di “conservazione” esprime l’intenzione di ridurre gli aspetti negativi del processo convenzionale e di valorizzare la capacità del sistema di autosostenersi: certamente non da solo – il moto perpetuo non esiste – ma con un insieme di tecniche in grado di aiutarlo. Non è quindi una rivoluzione completa, ma un processo continuo di miglioramento delle tecniche utilizzabili, che consenta di risparmiare sulle risorse non rinnovabili, fino a sostituirle del tutto, quando e se sarà possibile.

Dare valore a ciò che utilizziamo

Cosa si conserva e cosa, evidentemente, si scarta? Si conserva il suolo e la sostanza organica, per sfruttare la maggiore efficienza dei processi biologici (una foglia è più efficiente di un pannello solare), si risparmia acqua, fertilizzante, gasolio, agrofarmaci, ma senza rinunciarvi del tutto.
Non è quindi una tecnica “negativa” che cioè si oppone alla scienza e alla tecnologia e che dice no a tutto ciò che è innovazione, ma una scelta positiva che cerca di dare il massimo valore alle risorse senza sprecare nulla. Conservazione nell’innovazione, questo potrebbe essere il motto delle tecniche conservative: dare valore a ciò che utilizziamo, al punto da riuscire a impiegarne di meno per produrre di più
. L’agricoltura conservativa è trasversale rispetto ai regimi agronomici, nel senso che può sostenere sia quelli convenzionali (nel senso di non-bio) sia quelli biologici in senso stretto. I critici della “conservativa” sostengono che la semina diretta, senza lavorazioni, è possibile solo grazie al diserbo chimico, una premessa che avrebbe impedito, secondo loro, di considerarla una pratica sostenibile: nel frattempo però la tecnica si è affinata e sono possibili soluzioni alternative.
La disputa fra agricoltura “tecnologica” e “naturale”, priva cioè di qualunque effetto sull’ambiente, può essere portata avanti solo fra incompetenti: chi fa agricoltura per davvero sa bene che non esistono attività a impatto zero e che bisogna ogni volta trovare un punto di equilibrio.

Quali elementi conservare

Quali sono gli elementi che dobbiamo prioritariamente conservare? Parlare di fertilità è corretto solo in termini generali, perché questa deriva da un insieme di fattori che è opportuno esaminare singolarmente, se non altro per isolarne l’effetto principale:
conservazione della sostanza organica: le perdite per mineralizzazione devono essere minori dell’humus che si forma dalla trasformazione biologica della sostanza organica, apportata da fertilizzazioni e residui colturali;
1. conservazione dello strato attivo: l’erosione tende a sottrarre lo strato superficiale, per effetto della pioggia o, in taluni casi, anche del vento (le tecniche conservative sono state utilizzate per la prima volta – negli Usa – proprio contro l’erosione eolica);
2. conservazione dei nutrienti: gli elementi nutritivi (azoto e fosforo) possono essere dilavati dalle acque, sia per scorrimento superficiale, sia per percolazione profonda; le sostanze azotate (specie i nitrati) sono molto solubili, mentre lo sono assai meno quelle fosfatiche, ma solo dopo che si sono stabilmente legate alle particelle terrose;
3. impiego ottimale dell’acqua: in un terreno impermeabile lo scorrimento superficiale prevale sulla percolazione in profondità e sull’assorbimento; per contro, la costipazione profonda limita la risalita capillare durante la stagione secca.
Come premesso, ciascuno di questi fattori è strettamente connesso con l’altro, e può dare luogo a varie forme di interazioni, come ad esempio:
- quando la sostanza organica umificata si lega alle particelle minerali e assorbe acqua, le radici devono impiegare meno energia per estrarla rispetto a quella che sarebbe necessaria se l’assorbimento avesse interessato solo la parte minerale (sabbia, limo o argilla);
- la sostanza organica, grazie ai colloidi, forma agglomerati che evitano sia lo scorrimento reciproco delle particelle (maggiore portanza del suolo umido), sia l’incollamento delle stesse quando la terra si asciuga, rendendo più agevoli le lavorazioni;
- tali sostanze rendono il terreno meno sensibile al dilavamento, trattenendo i nutrienti, e all’erosione, legando insieme le particelle di argilla, limo e sabbia;
- la copertura vegetale della superficie (residui o cover crop) riduce l’esposizione alle piogge e al vento, ma può determinare una decomposizione troppo rapida della sostanza organica.

Pregi e difetti

Dalla descrizione dei fenomeni e delle interazioni reciproche si ricava che il regime conservativo si fonda su specifiche tecniche di lavorazione, di cui è bene evidenziare pregi e difetti.


- Non-lavorazione: il terreno è permanentemente coperto dai residui colturali che si decompongono in superficie, grazie alla formazione spontanea di un ambiente ricco di forme animali, vegetali e batteriche che si nutrono della biomassa; per consentire la vita di questi organismi è necessaria un’elevata umidità, che impedisce l’eccessiva o troppo rapida mineralizzazione; metano e ammoniaca (gas a forte effetto serra), durante il processo di decomposizione del carbonio e dell’azoto organico, si disperdono in atmosfera.


- Minima lavorazione, con intensità e tecniche diversissime: i residui colturali (e le colture a perdere nel caso di cover crop o maggese vestito) vengono interrati a piccola profondità e in diversa percentuale, proteggendoli da una decomposizione troppo rapida; nei climi secchi è meglio aumentare la profondità di interramento, ma senza mai superare i 30-35 cm; secondo le teorie più accreditate è opportuno evitare l’inversione degli strati perché riduce l’attività biologica nel terreno.

- Lavorazione a strisce (strip tillage), lascia intatto il terreno nello spazio fra le file; i residui colturali si decompongono in superficie, come nella semina su sodo, salvo la ristretta fascia lavorata; presenta il vantaggio di contenere lo sviluppo delle malerbe sulla fila e nelle immediate vicinanze, dove non possono arrivare gli utensili della sarchiatrice.

Le macchine impiegabili

Nella semina senza lavorazione è importante la scelta del sistema di apertura della traccia, che non deve essere disturbato dalla presenza di residui, che possono raggiungere uno spessore notevole.
Per la tecnica a strisce vengono impiegate macchine molto simili nel principio, dotate di utensili fissi o folli, posti in rotazione dal movimento del cantiere sul terreno; nonostante l’azionamento passivo la frantumazione dei residui e del terreno, è molto intensa e paragonabile a quella svolta da una minuscola zappatrice.
Molto più vasta è invece la platea delle macchine impiegabili per le minime lavorazioni, che si sono affermate soprattutto perché offrivano un’alternativa a buon mercato rispetto ai cantieri tradizionali.
È possibile fare minima lavorazione anche con questi, limitando però la profondità di aratura a 20-25 cm seguita da un passaggio con un coltivatore a ranghi multipli: per quanto l’inversione degli strati possa disturbare la fauna terricola, il controllo delle malerbe è molto efficace. In alternativa all’aratro a versoio si può usare quello a dischi, con un minore effetto sui semi delle infestanti che possono trovarsi a profondità tale da riuscire ugualmente a germinare, seppure con vigore ridotto.
Se si vuole evitare di invertire gli strati – sacrificando l’efficacia di interramento dei residui – si può optare per una “minima” realizzata con estirpatura seguita da erpicatura con utensili multipli: una soluzione valida per controllare le malerbe, ma poco competitiva rispetto ai cantieri convenzionali.

Dal punto di vista del rapporto fra costi e benefici emerge la convenienza della minima in unica passata, avvalendosi dei sempre più diffusi coltivatori a ranghi multipli

Dal punto di vista del rapporto fra costi e benefici emerge la convenienza della minima in unica passata, avvalendosi dei sempre più diffusi coltivatori a ranghi multipli, che hanno contribuito parecchio all’adozione delle minime lavorazioni, laddove non si riesce a seminare sul sodo. L’espressione sottintende varie sfumature: si va dall’impossibilità tecnica di adottare la semina diretta alla limitazione del rischio di perdita di nutrienti per vaporizzazione, dall’esistenza di condizioni di campo sfavorevoli al rifiuto psicologico della mancata lavorazione. La “minima” consente infatti di mascherare e correggere gli effetti di una cattiva gestione del suolo, dovuti alla compattazione da parte degli pneumatici, fino all’impiego improprio delle attrezzature, come avviene per le “suole di lavorazione”. In questi casi, anche la semina diretta di colture poco esigenti in fatto di lavorazioni, come i cereali vernini, non darebbe buoni risultati: se il rischio della mancata copertura del seme è sempre meno probabile con le macchine di ultima generazione, assai più temibile è quello di un prolungato ristagno idrico in seguito a forti piogge.
Le “minime” possono essere una soluzione di compromesso, anche se bisogna tenere conto dello stato del terreno: se la suola di lavorazione è imputabile all’aratura, l’intervento è più pesante, mentre se è dovuto all’abuso di macchine a utensili rotanti, la profondità è molto minore. Nel primo caso è necessario intervenire con una energica ripuntatura, su terreno tendenzialmente asciutto; nel secondo caso può essere sufficiente un passaggio con i decompattatori, dotati di lame verticali, con profilo più o meno ricurvo, che determinano un distacco rispetto agli strati profondi.

Conservazione e innovazione - Ultima modifica: 2022-06-15T14:29:29+02:00 da Francesco Bartolozzi

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