La pandemia in corso ha mostrato il lato debole dei sistemi economici fondati sul libero mercato, che avevano caratterizzato gli ultimi decenni, sulla scorta dello slogan che tutto si può produrre dove costa meno, sfruttando la debolezza di economie più povere.
Un nuovo ordine mondiale, che ha salutato il ventunesimo secolo con una nuova “rivoluzione industriale” che ha fatto a pezzi due secoli caratterizzati dalla ricerca di strumenti (democratici e non...) per indirizzare e regolamentare l’economia. Un messaggio del genere non avrebbe potuto passare, almeno in Occidente, dove esistono una cultura e una tradizione fondate sull’equilibrio fra i poteri; per questo, è stato abilmente distorto, facendolo passare per un’azione benefica nei confronti dei popoli e degli operatori economici più deboli.
Hai scelto di fare l’agricoltore? Il mercato globale ti consente di lavorare, ma alle sue condizioni, che sono quelle del prezzo più basso maggiorato del costo del trasporto. Se i cereali valgono 150 €/t e il trasporto dalla produzione all’acquirente ne vale 70, al produttore ne restano 80, che ci stia o che non ci stia dentro. La politica, in tutto questo, ha le sue colpe ed è venuto il momento di ridiscuterne.
Mancanza di strategia a lungo termine
In questi mesi si è visto che chi detiene un prodotto – qualsiasi prodotto, dal grano all’ortofrutta, ma pure alle mascherine monouso – in caso di emergenza si tiene ciò di cui ha bisogno; lo Stato può addirittura requisire, con un atto d’imperio, qualcosa che è destinato ad altri, ma serve a lui. Di colpo i principi del libero mercato, sui quali abbiamo fondato (o rifondato) i nostri sistemi economici, senza curarci di ciò che sarebbe potuto accadere alle aziende (o alle persone) più deboli, sono crollati come un castello di carte.
Sono saltate fuori espressioni che, almeno in Italia, erano state dimenticate: riserve strategiche, produzioni strategiche, piani strategici. Ma da quanto tempo non abbiamo più una strategia a lungo termine? La politica – a parte questo momento di reale emergenza – è abituata a guardare alle prossime elezioni, anche per qualche città o comune, e decide in funzione delle bandierine da appuntare sulla carta geografica.
Grazie a questa “programmazione a scadenza bimestrale” (la durata di un decreto legge) ci siamo dimenticati di pensare al futuro, se dovesse mai accadere qualcosa di strano: una pandemia, un incidente nucleare, un nuovo Krakatoa capace di influenzare il clima per qualche anno. Di colpo abbiamo imparato che sarebbe stato meglio organizzarci per produrre almeno il nostro fabbisogno primario, dai cereali allo zucchero e alle colture proteiche, dai prodotti monouso a quel minimo di energia che, in caso di guai, ci consenta di tenere in piedi le funzioni essenziali.
Dipendenti dalla globalizzazione
Risalgono a quasi 30 anni fa le sbornie comunitarie sulla necessità di evitare le eccedenze e di abbandonare le coltivazioni in nome dell’ambiente, importando in Europa concetti che non riguardano il modello agricolo europeo, e quello italiano in particolare. Da secoli (fine Medioevo) in Europa non si abbattono più foreste per ricavarne seminativi, come invece accade proprio in quei Paesi dai quali il mercato globale ci impone di importare i prodotti che da noi diventa sempre più difficile produrre. Lo stesso discorso riguarda anche altre problematiche ambientali, dalla canna da zucchero di cui si brucia la foglia in campo per facilitarne la raccolta (manuale!), al grano essiccato artificialmente con il glyphosate, all’ortofrutta prodotta con il DDT.
Queste politiche di breve respiro, scandite dalle tornate elettorali più che da una strategia di lungo periodo, ci hanno portato a essere sempre più deboli e dipendenti dal mercato globale, senza peraltro portare alcun progresso economico o sociale agli agricoltori del “Sud del mondo”. A chi è servito, allora? Proprio a coloro che oggi più si lamentano della crisi dovuta alla pandemia, cioè a chi solitamente specula sugli infiniti passaggi virtuali delle commodities (che restano sempre nello stesso magazzino), alle spalle di chi le produce. Sono gli stessi che sostengono le campagne contro l’agricoltura e la zootecnia che “inquinano più del petrolio”, che ci ha di recente propinato la televisione di Stato? O sono coloro che affermano che il Coronavirus si è diffuso a causa degli allevamenti e del movimento degli animali?
Non ci è dato di saperlo. Tuttavia, vediamo che sono in tanti a propugnare l’idea delle “produzioni a distanza”, che sembrano avere il solo scopo di incrementare l’incidenza – sul valore di mercato del prodotto – delle transazioni commerciali. In questo momento tanto grave per il Paese e per il genere umano, questi interrogativi devono farci pensare a come ricostruire un tessuto economico capace di salvaguardare le nostre imprese, che è esattamente quello che altre nazioni hanno sempre fatto, senza scandalizzare nessuno. Possiamo fare da noi un ottimo latte, per produrre ottimi formaggi che tutto il mondo ci invidia, ma dobbiamo fare in modo che produrre latte non sia un hobby costoso, ma una ragione di vita capace di dare un giusto guadagno.
Investimento importante
Non si può programmare un investimento da mezzo milione senza sapere cosa accadrà durante il periodo di ammortamento: perché dobbiamo sempre lavorare senza utile, e spesso anche senza recuperare tutto il costo del nostro lavoro? La trinciatura dei foraggi da insilamento sta diventando un’attività sempre più problematica dal punto di vista finanziario, con macchine progettate per un mercato sempre più lontano dalle nostre condizioni. E sì che in Italia (come nel resto d’Europa) il mercato delle trince è in larga prevalenza in mano ai costruttori europei, tuttavia la ricerca della massima tempestività e della polivalenza d’impiego sta spingendo verso l’incremento delle potenze e delle dimensioni.
Da una decina d’anni, da quando si sono concretizzati gli incentivi alla produzione di energia da biogas ed è iniziata l’espansione del settore, la potenza media si è incrementata di oltre il 50%, anche grazie all’evoluzione della tecnica motoristica, che ha permesso di aumentare le prestazioni senza andare a scapito dell’affidabilità. Grazie al controllo elettronico è diventato più sicuro, da questo punto di vista, un motore da 600 cavalli “tirato” a 750, perché in condizioni difficili è possibile ricorrere per breve tempo alla riserva di potenza, senza chiedere mail al propulsore il massimo delle prestazioni.
Controllo remoto
Le macchine di alta gamma possono essere dotate di sistemi di controllo remoto, che consentono all’imprenditore di sorvegliare a distanza cosa fa l’operatore e di verificare – in tempo reale o in differita – se si verificano condizioni potenzialmente pericolose. I controlli remoti, insieme ad altre apparecchiature per l’analisi sommaria della qualità del trinciato e per il controllo della posizione, possono far rientrare la trincia nelle condizioni per usufruire dei benefici “4.0” che, nonostante l’abolizione del cosiddetto “iper-ammortamento”, possono offrire vantaggi tangibili in termini fiscali. Da una parte, attraverso il credito d’imposta del 40%, che rappresenta un contributo diretto di cui tutti possono usufruire, anche se non hanno redditi imponibili elevati, per la possibilità di compensare il credito maturato con altre imposte o contributi. Dall’altro, grazie ai benefici della “Nuova Sabatini”, che consente di abbattere ulteriormente il costo degli interessi – sul mutuo o sul leasing – per gli acquisti rientranti nel “4.0”, con una percentuale di intervento che si avvicina quasi al 10% del valore dell’investimento.
Proprio questi due benefici stanno spingendo il mercato delle grandi macchine da raccolta, incluse le falciatrinciacaricatrici, a dispetto delle incertezze legate al difficile momento che stiamo vivendo: le imprese agromeccaniche hanno ancora la volontà di investire, nonostante tutto. Restano però i dubbi sul futuro della zootecnia e sull’effettiva volontà della Nazione di mantenere in funzione i settori strategici: i segnali che provengono dai mercati internazionali dovrebbero averci dato una lezione, ma bisogna saperli ascoltare.
Vendite ok nel 2019
Se il mercato delle mietitrebbie in Italia ha segnato il minimo storico nel 2019, con sole 310 macchine immatricolate, quello delle trince ha registrato, invece, il secondo anno di aumento, che lo riporta ai valori del 2014. Non parliamo di numeri stratosferici (86 unità), ma in ogni caso il trend positivo è di tutto rispetto (+7,5% sul 2018). Il parallelo con le vendite delle mietitrebbie ha un senso perché nella scorsa stagione si sono verificate situazioni climatiche tali per cui non conveniva aspettare la trebbiatura, bensì era più logico trinciare. Dunque, nel complesso la situazione è da guardare con positività, anche se siamo lontani dai numeri del boom del biogas, quando si superarono abbondantemente le 100 unità. D’altronde, quei numeri difficilmente potranno ripetersi.
Per quanto riguarda le quote di mercato, è ormai assodato che in Italia il mattatore sia sempre Claas, e questo è stato confermato anche nel 2019. Così come si è confermata la classifica degli altri brand. Ma le percentuali sono cambiate. In pratica, Claas ha raggiunto il 51,2% di share (contro il 56,3% del 2018), seguita da John Deere con il 22,1% (20% nel 2018), New Holland con il 12,8% (11,3% nel 2018), Krone con l’11,6% (8,8% nel 2018) e Fendt con il 2,3% (3,8% nel 2018).
di F.M.