Bergamo, Jesi, Fabbrico. Sì, certamente. E poi Beauvais, Marktoberdorf, Harsewinkel, Waterloo, se ci allarghiamo a Europa e Stati Uniti. Ma, da qualche tempo, anche Ankara, Pune, Belo Horizonte, Tianjin. Il mondo, ormai, è una cosa sola e non fa molta differenza produrre a Breganze o Querétaro (Messico). O meglio: una differenza c’è, ovviamente, ed è nel costo.
I principali costruttori mondiali, da qualche anno, delocalizzano, essenzialmente per tre motivi. Il primo, già citato, è economico. Ci sono però anche ragioni logistiche, perché produrre trattori sulla costa Est e poi spedirli in Australia non è molto pratico. Infine, non dobbiamo dimenticare i vincoli legislativi: per vendere senza dazi in determinate regioni è obbligatorio costruire le macchine all’interno delle medesime. Il fenomeno cui assistiamo da qualche anno non è però una semplice globalizzazione a fini logistici. Non si produce in India per vendere in India e paesi limitrofi, ma per esportare poi le macchine in Occidente, ottenendo un evidente vantaggio economico, che in parte si ripercuote sul prezzo finale. La domanda, quindi, è molto semplice: da dove viene il trattore che abbiamo in cortile?
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