Stringi stringi, la domanda è sempre una: conviene o no? Scommettere sulle nuove tecnologie, investendo migliaia di euro e non poco sforzo mentale – visto che, per far funzionare certi sistemi, un po’ le meningi vanno spremute – porta a qualche risultato o no? Causa la giovanissima età del precision farming italiano, è troppo presto per dirlo: lo sapremo tra qualche anno, è la risposta standard. A meno di non chiedere a chi queste tecnologie le usa già da un ventennio.
Un’azienda pioniera
Uno dei pionieri dell’agricoltura di precisione in Italia è senza dubbio il team del fratelli Gualandi, contoterzisti di Argenta (Fe). Iniziarono giusto vent’anni fa con la mappatura delle rese e da allora non si sono più fermati, fino ad arrivare – da quest’anno – alla semina con dosaggio variabile, sia per il mais sia per i cereali a paglia. Dunque, nulla di meglio che girare a loro la domanda che proviene oggi da moltissime aziende, messe di fronte al bivio tra continuare come si è sempre fatto o spendere per attrezzarsi con geo-referenziatori, sensori di umidità e celle di carico. «Se la domanda è “Si guadagna di più offrendo tecnologie di precisione?” – ci dice Roberto Gualandi – al momento la risposta è: no, non si prendono più soldi. Sia perché parliamo di impianti comunque costosi, sebbene molto meno che in passato, sia perché sono ancora pochi gli agricoltori disposti a pagare per avere un servizio di questo tipo. Se invece la domanda è “Conviene impegnarsi nel precision farming?”, allora la risposta è sì».
La contraddizione, precisa il Gualandi, è soltanto apparente. «È vero che non si guadagna di più sul singolo lavoro, ma è anche vero che noi, nel tempo, abbiamo raccolto molti nuovi clienti per il solo fatto di aver avuto sempre macchine all’avanguardia, offrendo un servizio per il quale le altre aziende non erano ancora attrezzate». Non si guadagna di più, insomma, ma ciò nonostante val la pena investire. «A mio parere, sì; anche perché, in caso contrario, si rischia di restare tagliati fuori, visto che in futuro la tecnologia è destinata ad aumentare, non certo a ridursi».
Dotazione di rilievo
Roberto e Bruno Gualandi sono titolari dell’impresa di famiglia dal 1996, quando l’ereditarono dal padre dal padre Mario, scomparso pochi mesi fa, il quale l’aveva avviata nel 1962 con il fratello Marino e una Mietitrebbia Arbos a sacchi. Oggi le mietitrebbie sono dieci, quattro delle quali attrezzate per fare la mappatura delle rese. In più hanno nove impianti di guida automatica. «Sei sono Trimble, mentre tre sono Greenstar di John Deere. Inoltre, su tutti i semoventi per irrorazione abbiamo impianto satellitare con chiusura automatica delle sezioni in caso di sovrapposizione», precisa Gualandi.
Un’azienda, dunque all’avanguardia, se non altro come dotazione: uno dei vantaggi di aver iniziato quando gli altri ancora non pensavano a questi sviluppi. «Era il 1996 quando, in accordo con Pioneer, attrezzammo tre mietitrebbie con un sistema Rds in grado di fare la mappatura dei raccolti. C’era allora, dentro Pioneer, un funzionario che credeva molto in questo progetto e che ci aiutò a trovare i primi clienti. Parliamo di preistoria, rispetto a oggi: avevamo tre monitor in cabina soltanto per satellite e mappatura e, una volta raccolti i dati, c’era il problema di interpretarli: praticamente nessun agronomo era in grado di sfruttare le informazioni per capire dove e come concimare di più. Mancava insomma un pezzo della catena».
Non per questo i Gualandi si scoraggiarono: «Continuammo a investire, sebbene il ritorno economico, ai tempi, fosse molto ridotto, anche per il costo degli strumenti (32 milioni per impianto, ndr). Tuttavia il ritorno d’immagine ci spinse a non mollare». Arrivarono così, anno dopo anno, sia gli agronomi in grado di interpretare i dati sia sistemi di rilevamento più efficienti e meno costosi. «Oggi qualsiasi azienda, una volta ricevuta la chiavetta con i dati di produzione, è in grado di trovare chi prepara una mappa per la concimazione differenziarta». Concimazione che tuttavia i Gualandi, al momento, non effettuano ancora. «Abbiamo macchine già predisposte, ma non c’è ancora domanda da parte degli agricoltori. In ogni caso, non appena ci sarà richiesto, noi siamo pronti».
Gli spazi di crescita
È invece iniziata dalla primavera scorsa la semina a rateo variabile. «La facciamo sia su mais e colture monogerme sia sulle autunno-vernine. Per le prime abbiamo usato una Tempo della Vaderstad, una macchina che, grazie al controllo elettrico del distributore, può variare l’investimento secondo quanto stabilito dalle mappe di prescrizione».
Dall’autunno è partita la semina di precisione per grano e altre colture a file, grazie a due Solitair di Lemken con controllo delle sezioni. «Sono divise in quattro settori da un metro e mezzo ciascuno. Caricando le mappe di prescrizione nel computer, aumentano o riducono la quantità di seme all’interno del campo. Un lavoro molto interessante, iniziato soprattutto perché alcuni importanti clienti ci chiedevano questo tipo di servizio, ma che prevediamo altri adotteranno».
A proposito di futuro: i Gualandi sono sempre convinti che questi sistemi siano destinati a diffondersi ulteriormente? «Senza dubbio sì, ma principalmente sulle realtà più strutturate e soprattutto più aperte mentalmente. L’azienda tradizionale, purtroppo, fatica ad accettare queste tecnologie, non vedendovi un ritorno economico immediato, nonostante la differenza di prezzo tra semina tradizionale e a dosaggio variabile sia davvero modesta. Insomma: bisogna crederci».
I Gualandi, ovviamente, ci credono e continuano a stare al passo con la modernità. «Siamo convinti che il futuro vada in questo senso. Del resto, basta guardare cosa è accaduto negli ultimi anni: una mietitrebbia del 2016, dal punto di vista meccanico, è sostanzialmente uguale a una del 2000, mentre se parliamo di elettronica, è totalmente su un altro pianeta e ha ormai ha estromesso l’uomo da molte decisioni, nella convinzione che non sempre l’uomo abbia le capacità necessarie a prenderle. In futuro l’automazione diventerà ancor più esasperata».
Mietitrebbia a parte, Gualandi vede un grande spazio di crescita nel settore fitosanitario. «Al momento lavoriamo con la chiusura automatica delle sezioni e una delle nostre irroratrici è già in grado di chiudere ogni singolo ugello. Tuttavia in certi paesi – vedi gli Usa – sono molto più avanti: operano con i principi attivi separati e acqua pulita nella cisterna. Grazie a una mappa che indica la dislocazione delle infestanti nel campo, trattano soltanto dove serve e con il principio attivo più adatto. In determinati appezzamenti le infestanti perenni coprono il 20% della superficie eppure per combatterle facciamo un trattamento totale: pensiamo allora a che margini di guadagno economico e ambientale offre un sistema come quello che ho descritto».
I Gualandi, ovviamente, sono estremamente attenti a un’evoluzione di questo tipo, anche perché nella loro azienda il settore fitosanitario è molto sviluppato, forse anche più della raccolta. «Abbiamo sei irroratrici semoventi e due portate, che usiamo con vecchi trattori semicingolati in risaia. Mediamente, in un anno facciamo 25mila ettari di trattamento e concimazione liquida. Senza dubbio un sistema con principi attivi separati ci interessa. Del resto, cerchiamo di evolverci costantemente, anche per non essere aggrediti dalla concorrenza. Perché una mietitrebbia la può comprare chiunque, ma il servizio e l’esperienza non si improvvisano e differenziano un’azienda dalla massa».
Parco macchine sterminato
Davvero imponente il parco macchine che troviamo in questo angolo di Delta del Po e che è usato, oltre che da Bruno e Roberato, da una dozzina di dipendenti fissi. Le mietitrebbie sono dieci, di cui otto Claas Lexion e due John Deere. L’ultima arrivata è una 760 Terra Trac, cui si affianca una 630 convenzionale. «Le ibride sono macchine molto produttive e, ormai, hanno eliminato i noti problemi sulla paglia. Le convenzionali ci servono invece per le aziende più piccole».
I trattori, ovviamente, vanno ben oltre la decina. Tra i principali ricordiamo due Trac di John Deere (8370 e 8320) e poi quattro Fendt 936 e un 7920 John Deere. Tra i piccoli, citiamo il 6R 125 e un 516 Fendt, ma anche un Valtra Valmet che fu oggetto di uno dei primi Provato da voi di questa rivista, nel lontano 2003 e che svolge ancora più che degnamente il suo dovere.