Che si faccia biogas o biometano, in altre parole sia che si lavori per produrre energia elettrica, sia per vendere metano gassoso o liquefatto, tutto comincia sempre e comunque dal digestore. Che è, se vogliamo ragionare per metafore, un enorme intestino in cui fermentano masse vegetali, liquami zootecnici e scarti di lavorazione di vario tipo. Se ne estrae il prezioso biogas, che potrà poi essere usato in un impianto di cogenerazione oppure ulteriormente raffinato fino a ottenerne metano puro, ma in ogni caso, da quelle vasche esce anche l’arcinoto digestato, miscela di acqua, materia organica di origine animale o vegetale e, cosa che ci interessa in modo particolare, elementi nutritivi di vario tipo. Azoto, in primo luogo, nelle forme organica e ammoniacale (il digestato contiene più azoto ammoniacale rispetto ai reflui bovini e soprattutto suini). Inoltre, fosforo, potassio e altri microelementi, come calcio, sodio e magnesio.
A grandi linee, possiamo calcolare che un digestato tal quale (ossia non ancora sottoposto a processo di separazione solido-liquido) contiene tra il 3 e il 6 per mille di azoto, di cui il 70% circa in forma ammoniacale, attorno all’uno per mille di fosforo e tra l’uno e il tre per mille di potassio. Inoltre, un uno per mille circa di calcio e sodio e uno 0,5 per mille di magnesio (valori ottenuti come media di diverse rilevazioni di enti pubblici e universitari reperibili online, oltre che dall’esperienza diretta degli intervistati in queste pagine). Tradotto in termini di più semplice comprensione, in una tonnellata di digestato vi sono tra i 3 e i 5 kg di azoto, quasi un chilo di fosforo e fino a 3 kg di potassio.
Un sottoprodotto da gestire
Al di là della composizione – che come vedremo è basilare – un fatto è certo: il digestato va in qualche modo gestito. Dopotutto non si parla di piccole quote: Un impianto da 1 mW ne produce circa 80 metri cubi al giorno. Più o meno 30mila tonnellate l’anno che da qualche parte devono essere collocate.
La soluzione più ovvia – e razionale – trovata finora è utilizzarlo come fertilizzante, valorizzandone il contenuto nutritivo. Si risparmia così sui costi di coltivazione – proveremo a quantificare questo risparmio di seguito – e si crea uno di quei casi di economia circolare che tanto piacciono, oggi, al legislatore. Nelle prossime pagine cercheremo di analizzare potenzialità e limiti di una simile soluzione, sia dal punto di vista agronomico, sia economico. Lo faremo basandoci sull’esperienza di tre addetti ai lavori: figure professionali che con i reflui – digestato, ma anche effluenti zootecnici tal quali – hanno a che fare ogni giorno.
Si tratta di Adriano Chiari, contoterzista bresciano, specializzato da decenni proprio nella distribuzione di effluenti di vario tipo e del suo collega Roberto Negroni, bergamasco e anch’egli assai attivo nel ciclo del digestato.
Infine, Paolo Montana: contoterzista, agricoltore e anche allevatore, che da anni studia come valorizzare i fertilizzanti organici sostituendoli alla concimazione minerale. Per evitare ripetizioni ed eccessive lungaggini, quella che forniremo è una sintesi delle loro esperienze.
Non tonnellate, ma chilogrammi
La prima precisazione, alquanto ovvia, è che dovendo far qualcosa con il digestato, e visto il suo potere fertilizzante, è il caso di valorizzarlo al meglio anziché sprecarlo. Anche perché – come testimoniano ormai numerosissime esperienze, nonché diverse ricerche – coltivare cereali con i soli fertilizzanti organici è possibile. «Non soltanto è possibile – interviene Paolo Montana – ma si ottengono produzioni assolutamente in linea con la concimazione minerale. Con in più il vantaggio di fornire sostanza organica al terreno, migliorare la microflora e, per mia esperienza, avere anche mais più sani».
Il primo passo per questo processo è, a detta di tutti gli interpellati, abbandonare le tonnellate per passare ai chilogrammi. In altre parole, smetterla di ragionare in tonnellate di digestato per ettaro e abituarsi a considerare, invece, i chilogrammi di azoto per metro cubo di prodotto. «Questo passaggio è fondamentale, sia per ottenere buoni risultati in campo sia per valutare la sostenibilità economica di un piano di concimazione fatto soltanto con prodotti organici», precisa Negroni. E Adriano Chiari rincara la dose: «Le nostre macchine servono per valorizzare il digestato sostituendolo al concime minerale, non per vuotare le vasche. Se portiamo in giro acqua sporca, la spesa per il cliente diventa insostenibile e antieconomica». Il punto di equilibrio, da quanto ci spiegano gli addetti ai lavori, sono i 3 kg di azoto per metro cubo: al di sotto di questa concentrazione, il rischio di sprecare soldi diventa concreto.
Evitare acqua superflua
Per questo motivo la raccomandazione principale è quella di curare con attenzione la concentrazione del prodotto: in altre parole, evitare di diluirlo, per non perdere potere fertilizzante e, al tempo stesso, non spendere inutilmente soldi per trasportare e interrare acqua fresca. «Il digestato – aggiunge Chiari – solitamente è in condizioni migliori dei reflui zootecnici, in quanto nelle vasche finisce soltanto il materiale che esce dal digestore. Nel caso dei liquami, invece, negli stoccaggi arriva anche l’acqua utilizzata per il lavaggio del paddock, l’acqua piovana che cade sulle aree di stabulazione e talvolta anche l’acqua di lavaggio degli impianti di mungitura». Sono tutti metri cubi da trasportare e interrare senza che ne derivi alcun beneficio in termini di nutrimento del terreno. Con costi di trasporto che possono arrivare a 5 euro per metro cubo, non ne vale la pena. Per questo motivo è conveniente, agronomicamente ed economicamente, coprire le vasche di stoccaggio: se parliamo di biodigestori, infatti, l’acqua piovana è l’unica possibile fonte di diluizione degli effluenti.
Il piano di fertilizzazione
Quando si ha a che fare con fertilizzanti di provenienza animale – nel digestato di solito finiscono liquami suini o bovini – si devono sempre fare i conti con la Direttiva Nitrati, che impone i noti vincoli all’impiego dell’azoto zootecnico. Ciò nonostante, con un po’ di attenzione è possibile fare una fertilizzazione completa su grano e mais soltanto per via organica. Una soluzione – la più economica in termini di costi – è quella di somministrare tutto il prodotto in una sola distribuzione, in presemina. Per conoscere il quantitativo esatto di digestato da utilizzare, si torna a quanto detto sopra: occorre prestare attenzione ai chilogrammi di azoto per metro cubo, che possono essere determinati sia con un’analisi dei reflui, sia, più comodamente, tramite sistemi Nir installati sui moderni mezzi per lo spandimento. «Grazie al Nir conosciamo con precisione il contenuto del digestato e possiamo decidere quanto azoto distribuire in ogni campo», spiega Negroni. E, in qualità di cliente, Montana aggiunge: «Ormai si deve lavorare con sistemi che diano la certezza di quel che stiamo facendo. Al termine dell’intervento, il contoterzista fornisce un report con il quantitativo esatto di azoto portato in campo. In più questi mezzi semoventi adeguano la velocità e la portata della pompa alle informazioni che ricevono dal Nir, eliminando la variabilità che a volte si ha tra una vasca e l’altra».
Utilizzando le moderne tecnologie, diventa semplice stabilire quanto azoto finisce in campo. Nell’ipotesi di un digestato da 5 kg/mc, con 60 metri cubi per ettaro si somministrano 300 unità di azoto, oltre a una sessantina di kg di fosforo e almeno 150 di potassio. Il necessario per coltivare mais, mentre per il grano, in un’ipotesi di questo tipo, basterebbero 40 t/ha. Con un solo intervento, tuttavia, si rischia di non disporre del nutrimento necessario quando le colture ne avranno bisogno, ovvero durante la primavera per il mais e a fine inverno per grano e simili. Una soluzione sono gli additivi, che rallentano la cessione dell’azoto ammoniacale, prolungandone l’azione fertilizzante nel tempo. A essa, si aggiunge la nutrizione data dall’azoto organico, di più lenta assimilazione.
Esiste poi la possibilità – ed è ciò che fanno in molti – di suddividere la dose massima in più interventi. «Diciamo che due trattamenti sono quasi la regola. Il primo in presemina, con una contestuale lavorazione del terreno, e il secondo a fine inverno per il grano o alla quinta foglia per il mais. In questo caso si usano barre con calate, che localizzano il prodotto vicino alla pianta», ci spiega Roberto Negroni. Montana, da buon agronomo, consiglia di non scendere sotto i due interventi: «Un buon piano di fertilizzazione organica può iniziare a settembre, con le cover crop, che posso anche concimare leggermente. Sulle stesse andrò a distribuire digestato a febbraio, prima di lavorarle nel terreno. Seguirà poi un intervento in presemina e uno allo stadio di quarta-quinta foglia, in contemporanea alla sarchiatura. In questo modo il terreno si arricchisce di sostanza organica e il mais ottiene tutto il nutrimento necessario. Sui miei terreni non uso concime minerale da ormai tre anni, senza alcun calo di produzione».
«Avendo iniziato questa attività da decenni abbiamo una casistica molto ampia. Ci sono clienti – fa notare Adriano Chiari – che dal 2010 non comprano un sacco di urea o altro fertilizzante».
Tecniche (e costi)
Per ottenere questi risultati sono ovviamente necessari macchinari appositi e specifici attrezzi per la distribuzione in campo. In presemina si possono usare testate con ancore o dischi, che lavorano il terreno mentre lo fertilizzano. Per gli interventi in copertura, invece, si va dalle testate con dischetti, che incidono il suolo per pochi millimetri, alle barre con calate, per una distribuzione superficiale, ma che è subito assorbita dal terreno e dunque limita la dispersione dell’azoto ammoniacale. «Non dimentichiamo lo strip tillage. Grazie a esso – precisa Chiari – è possibile massimizzare l’efficacia del digestato, in quanto la dose di liquame non è distribuita su tutta la superficie, ma soltanto su un terzo di essa e dunque l’area in cui andrà deposto il seme riceve una quantità tripla di fertilizzante».
Un aspetto non marginale – anzi, centrale – è naturalmente quello dei costi. Si è portati a pensare che la fertilizzazione con digestato sia quasi gratis, dal momento che non si deve acquistare il concime. Tuttavia, la sua gestione con macchine ad alta tecnologia ha un costo tutt’altro che secondario. Paolo Montana si spinge a ipotizzare una spesa tra i 500 e i 600 euro l’ettaro per una fertilizzazione in più fasi, ma anche limitando al minimo gli interventi, l’investimento è comunque considerevole. In media la distribuzione con macchine semoventi dotate di Nir richiede tra i 3 e i 5 euro per metro cubo o in alternativa un prezzo fisso più una quota per ettaro, che varia in base al tipo di lavorazione eseguito. Nell’ipotesi di distribuire digestato con 5 kg di azoto per metro cubo, si avrebbe quindi una spesa compresa tra i 200 e i 300 euro per ettaro, cui va aggiunto il costo di trasporto, nel caso esso sia effettuato dal contoterzista. Questa voce cambia – e molto, anche – in base alla distanza da percorrere. Se mediamente possiamo calcolare fra i 3 e i 4 euro per metro cubo, è indubbio che la posizione dei campi rispetto alle vasche di stoccaggio diventi una variabile determinante. «Vi possono essere trasporti da 0,5 euro a metro cubo come da 5 euro, tutto dipende dai chilometri. A determinare la convenienza della concimazione con digestato rispetto a una minerale sono soprattutto due variabili: il costo dell’urea e la distanza tra azienda e terreni. Lo scorso anno, con l’urea a 100 euro al quintale, erano convenienti dislocazioni fino a 20 km di distanza, pur impegnando anche cinque trattori con carro-botte per fare la spola tra vasche e campo. Ora che l’urea è attorno ai 50 euro, un trasferimento simile diventa troppo oneroso; già spostarsi di 10 km, con tre botti impegnate, comporta una spesa considerevole», ci spiega Roberto Negroni.
Digestato e concimi minerali
Naturalmente questo ragionamento non tiene conto di un aspetto: chi il digestato se lo trova in casa, in qualche modo lo deve smaltire e dunque anche un trasferimento lungo può essere preferibile a una situazione in cui non si sa dove interrare le 20 o 30mila tonnellate prodotte ogni anno dall’impianto.
Torniamo però ai nostri conti: nell’ipotesi di un solo trattamento, ai circa 300 euro per ettaro se ne aggiungono, nel caso di terreni entro i 10 km di distanza, altri 180 di trasporto, per un totale di 480 euro. Non lontano, quindi, dalla cifra proposta da Montana – dai 500 ai 600 euro – che in realtà prendeva in considerazione non una sola distribuzione, ma almeno due o tre interventi in fasi diverse. Queste cifre si abbassano notevolmente se lo spandimento è fatto dal proprietario, con mezzi propri. Per una valutazione più precisa proponiamo in queste pagine una tabella, realizzata per noi da Cai Agromec, in cui si ipotizza il costo di ammortamento di un cantiere composto da trattore e carro-botte a due, tre o quattro assi. Come si legge nell’ultima riga della medesima, una soluzione di questo tipo ha un costo variabile da un minimo di 70 a un massimo di 140 euro per ora, manodopera compresa.
Proviamo ora a calcolare il costo per fertilizzare i terreni con concimi minerali. Il totale varia molto, ovviamente, a seconda delle quotazioni dell’urea; per la nostra simulazione abbiamo utilizzato il valore medio di fine inverno, quando era necessario fare l’acquisto. Si era attorno a 60 euro al quintale. Considerando un titolo di azoto del 46%, avremo che ogni kg di azoto ci costa 1,3 euro. Dunque, per somministrare le nostre 300 unità al mais dovremo spendere 390 euro di fertilizzante, più almeno 30 euro per la distribuzione. Dal momento che la dose di concime si somministra in tre passaggi – per un costo totale vicino ai 90 euro – avremo una spesa complessiva di 390 euro per l’azoto, cui si devono aggiungere circa 150 euro di fosforo (tipicamente nel formato di fosfato biammonico 18 46) e 170 di potassa. Tirate le somme, abbiamo dunque una spesa complessiva di oltre 700 euro per i fertilizzanti, più un centinaio per lo spandimento in campo. Ben più, quindi, di un piano di concimazione basato su digestato, per quanto trasportato a distanze di chilometri dal punto di produzione. «Questo senza contare – conclude Montana – che il digestato va comunque messo da qualche parte, ma soprattutto che il suo impiego apporta, oltre ai nutrienti, anche sostanza organica: un elemento prezioso in terreni ormai depauperati per mantenere vitale i microrganismi, vera ricchezza e fonte di benessere e salute per le piante».