Le ripetute crisi agricole sembrano dimostrare, su scala temporale ridotta, i corsi e ricorsi della storia umana, come sosteneva un grande pensatore del passato. Ciò che non è possibile sperimentare direttamente sul ripetersi degli eventi storici, stante l’ancor troppo breve durata della vita umana, può invece essere constatato facilmente per l’agricoltura.
Ogni anno è una storia a sé, sostenevano gli antenati: se questo è vero sul piano climatico, lo è ancora di più quando si esaminano i bilanci aziendali. Le ricorrenti crisi dei prezzi agricoli sono ormai un fatto strutturale, al quale sembra sempre più difficile porre rimedio. La politica ha certamente le sue colpe e, a poco più di due decenni di distanza dalla prima vera riforma delle politiche agricole comunitarie, ne possiamo vedere i risultati. L’agricoltura europea si sente presa in giro: si è data la precedenza al libero mercato, per favorire le esportazioni dell’industria manifatturiera, cardine delle economie europee; ma questo ha indebolito proprio l’anello più debole del sistema produttivo. La strada tracciata dalla riforma McSharry non sembra trovare vie d’uscita: l’artificioso sostegno dei prezzi resterà per sempre un ricordo, anche perché aveva portato a innumerevoli storture.
Con l’ultima revisione della Pac sono stati comunque presi provvedimenti che, senza tornare ai montanti compensativi, creano un “fondo anticrisi” per compensare le crisi di mercato: dal prossimo anno verranno stanziati ben 500 milioni, che dovranno tuttavia passare l’esame dell’approvazione del bilancio Ue 2016. Non sono spiccioli: se fossero destinati solo ai cereali, in ragione di 25 €/t, si potrebbero coprire ben 20 milioni di tonnellate di prodotto. Resta però l’incognita della progressiva liberalizzazione dei mercati per alcuni prodotti significativi, tanto per l’area mitteleuropea che per quella mediterranea, con la fine delle quote latte e la liberalizzazione delle superfici a vite. Poche le speranze per il futuro, quindi, riguardo a una reale inversione di tendenza. Dobbiamo imparare a fare i conti con un’agricoltura più povera, in termini di fatturato per ettaro, più ricca di vincoli (greening e diversificazione colturale) e con una redditività sempre più dipendente dai contributi comunitari.
A questo si aggiunga che sui cereali la diminuzione delle rese è ormai accertata: la stessa azienda che vent’anni fa era a un passo dalle 20 t/ha di granella di mais a umidità commerciale, oggi scivola spesso sotto le 14 t/ha; sul grano tenero, il traguardo delle 10 t/ha si sta allontanando e, complice il clima, si fatica ad arrivare alle rese che fecero la “rivoluzione verde”, mezzo secolo fa. I redditi agricoli si stanno erodendo, anche sulle colture destinate alla trasformazione: la barbabietola, dopo essere stata affossata dalla legge, non sempre riesce a coprire i costi, mentre il pomodoro deve fare i conti con un prezzo volatile e poco remunerativo; il tabacco è stato in larga parte dismesso e pure le foraggere mostrano una tendenza al ribasso ormai strutturale.
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