La crisi dei prezzi agricoli, per quanto annunciata da tempo, ha messo in ginocchio il settore primario, esasperando il dibattito fra le parti sociali.
La frase provocatoria pronunciata dal presidente della Cia, qualche mese fa, di sospendere le semine nel caso in cui il mercato dei cereali non avesse offerto prezzi più remunerativi, è una chiara testimonianza del senso di impotenza che attanaglia gli agricoltori. Ma è anche una dimostrazione palese, dato il livello di chi l’ha detto, di come questi scelgano ancora cosa produrre solo sulla base del sentimento corrente. Il problema, come ha sottolineato il Coordinamento Agromeccanici Italiani, è un altro: come hanno mostrato le dichiarazioni degli agricoltori, si continua a decidere quanto seminare solo sulla base dei prezzi correnti, senza pensare a cosa succederà al momento della raccolta. Ciò che manca è la programmazione, sia da parte degli agricoltori, sia da parte dello Stato.
I grandi produttori mondiali, nonostante siano caratterizzati da una politica economica liberista, hanno sempre cercato di programmare la produzione, per difendere gli interessi della parte più debole (e più numerosa). In Italia, evidentemente, questo non si può e non si vuole fare: dieci anni fa ci stupivamo che le camere di commercio austriache, già a metà luglio, distribuissero nelle nostre borse merci volantini con produzioni, quantità e caratteristiche tecniche del loro grano tenero.
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