Dallo scorso 15 ottobre è divenuto obbligatorio il passaporto sanitario (green pass) per accedere ai luoghi di lavoro, come stabilito dal Decreto legge n. 127 del 21 settembre scorso. Una misura resasi indispensabile per consentire il ritorno a una situazione di normalità e fare ripartire le attività economiche che ha suscitato opposizioni, ma senza alternative concrete.
Non dobbiamo dimenticare che una ripresa dei contagi, con conseguenti assenze per malattia di una parte consistente dei lavoratori, non può essere ulteriormente tollerata dal sistema previdenziale, già messo a dura prova, alla pari del servizio sanitario.
Poiché la campagna di vaccinazione – in assenza di obblighi giuridici – non ha raggiunto la totalità della popolazione, l’unica strada praticabile sembra essere quella di obbligare coloro che possono essere esposti a un contatto stretto con altri individui, a seguire un percorso di prevenzione.
Il percorso passa dai vaccini, considerati dalle autorità sanitarie come la difesa più valida e sicura, oppure dal controllo periodico, effettuato attraverso il prelievo di liquidi organici (il cosiddetto tampone), con frequenza legata al grado di affidabilità dello strumento diagnostico.
Si noti che nessuno dei due sistemi garantisce la sicurezza assoluta (un concetto che non esiste in natura), ma consente di contenere lo sviluppo della malattia (i vaccini) o di prevenire i contagi, attraverso lo screening. L’obbligo del Green Pass è giustificato dalle resistenze nei confronti della campagna vaccinale: accanto a chi non si fida della tecnologia (pur facendone un uso quotidiano) c’è chi nega l’esistenza di una malattia che ha già fatto 5 milioni di vittime, senza contare quelle dei “popoli senza voce”.
I lavoratori coinvolti
La nuova disciplina si applica a tutti coloro che possono essere definiti, in base alle norme sulla sicurezza, come “lavoratori”, una definizione di portata generale che comprende tutti i soggetti diversi dal datore di lavoro, nei cui confronti possono esistere delle responsabilità.
Sono quindi compresi sia i dipendenti, sia i collaboratori, gli apprendisti, gli stagisti e perfino gli studenti che svolgono periodi di tirocinio, come quelli previsti dall’alternanza scuola-lavoro.
La norma non prevede nulla riguardo alle figure esterne, come fornitori, manutentori e visitatori: tuttavia la funzione preventiva del Green Pass, rivolta a tutelare la salute altrui, lascia pensare che sia sicuramente consigliabile anche per gli “esterni”.
Il controllo deve essere effettuato dal datore di lavoro o da una o più persone incaricate (nelle grandi aziende), prima dell’accesso al luogo dove si svolge la prestazione lavorativa.
La verifica si può fare a vista sul certificato cartaceo, ma è una procedura che si presta a errori; un’applicazione gratuita, scaricabile sul telefono cellulare, permette di inquadrare con la telecamera il simbolo grafico (QR Code) che identifica il certificato, per la verifica immediata.
Se il Green Pass è valido, lo schermo si illumina di verde (validità in tutta l’Unione Europea) o di azzurro (se valido solo in Italia); se si illumina in rosso significa che la certificazione non è ancora valida, è scaduta, o c’è stato un errore di acquisizione; per questo è bene ripetere la lettura.
I luoghi di lavoro
La verifica deve essere fatta al momento dell’accesso al luogo di lavoro, un contesto facilmente identificabile per un’impresa commerciale o industriale, ma molto più indefinito per chi opera in solitudine, all’interno di un mezzo di trasporto, o in aperta campagna.
Se guardiamo all’art. 62 del testo unico sulla sicurezza (DLT 81/2008), sono definiti luoghi di lavoro quelli “destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”.
Ogni tipologia di spazio può quindi assumere la qualità di “luogo di lavoro”, purché possa ospitare almeno un posto di lavoro o sia accessibile al lavoratore nell’ambito della sua attività, anche al fuori della sede dell’azienda; non sono però compresi fra i luoghi di lavoro i seguenti ambienti:
- posti di guida di mezzi di trasporto, con l’eccezione dei veicoli passeggeri;
- cantieri temporanei e mobili (sfalcio banchine, ripristino viabilità, spazzaneve, ecc.);
- le imbarcazioni da pesca e industrie estrattive, come cave e miniere;
- i campi, i boschi e gli altri terreni facenti parte di un’azienda agricola e forestale.
Viene quindi da chiedersi se in questi contesti, non riconducibili alla natura di luogo di lavoro, sia obbligatorio richiedere la certificazione sanitaria, specialmente quando il lavoratore accede direttamente al mezzo senza passare dal centro aziendale.
Solo nel caso in cui sia materialmente impossibile incontrare il lavoratore per la verifica del certificato si può ritenere che il datore di lavoro si sia comportato correttamente, ma si tratta comunque di un’eventualità limitata nel tempo. Sarebbe più prudente chiedere al dipendente di farsi registrare presso la sede dell’azienda una volta per tutte se la certificazione è stata rilasciata in seguito alla vaccinazione; deve invece essere ripetuta in presenza di una certificazione temporanea, come nel caso dei tamponi.
Le conseguenze per chi non ce l’ha
L’unica ipotesi di esonero riguarda quei lavoratori che, per motivi di salute risultanti da apposita certificazione, non possono essere sottoposti a vaccinazione. Escluso questo caso, il mancato possesso del Green Pass comporta l’impossibilità pratica di lavorare: ne consegue la sospensione della retribuzione, fino a quanto il lavoratore esibisce una certificazione valida, per avere eseguito un tampone negativo o essersi vaccinato.
Se il lavoratore viene “pescato” in azienda privo di certificazione scattano le sanzioni pecuniarie, che partono da un minimo di 600 euro per l’interessato e da 400 euro per il datore di lavoro, per il mancato controllo, più altri 400 se non è stato adottato un modello organizzativo per i controlli.
La recidiva comporta il raddoppio delle sanzioni: a chi vive nel terrore (ingiustificato ma esistente) dei vaccini non resta altro da fare che sottoporsi al periodico screening dei tamponi, una pratica che ha un costo sensibile, di competenza individuale (non spetta all’azienda e di conseguenza non è neppure scaricabile fiscalmente, in quanto viola il principio di inerenza).
Ma non ci sono solo le sanzioni, che possono essere accertate soltanto dagli organi competenti: il lavoratore privo di Green Pass deve tornarsene a casa e viene considerato assente ingiustificato, con sospensione della retribuzione. Per le imprese che occupano meno di 15 dipendenti il controllo del certificato riguarda solo i lavoratori subordinati: chi ne fosse privo, è considerato assente ingiustificato per i primi 5 giorni, e può essere sospeso per i successivi 10 giorni, prorogabili a 20.
L’obbligo del Green Pass ha carattere temporaneo, legato al permanere dello stato di emergenza sanitaria, che si dovrebbe concludere il prossimo 31 dicembre.