Seminatrici, tre ipotesi per la realtà italiana

seminatrice
Seminatrice al lavoro
No tillage, minima lavorazione e semina diretta. Quando e come si possono applicare

Dalle più cupe previsioni di un forte regresso delle superfici seminate, sostenute da frasi vagamente minacciose, è trascorso appena un anno, ma sembra preistoria. I proclami e le invettive sono stati rapidamente dimenticati, mentre il settore agricolo ha perduto nuove posizioni, sia nei confronti dei mercati sia sul piano politico.
Una debolezza, però, che potrebbe essere facilmente superata se si riuscisse a programmare colture, varietà e superfici, orientandole alle richieste dell’industria di trasformazione, specialmente ora che è stata resa obbligatoria l’indicazione di origine delle materie prime. Per far questo bisogna organizzare bene la filiera: l’industria di trasformazione definisce i suoi fabbisogni (per quantità e qualità), così da consentire agli agricoltori di programmare le superfici, le cultivar e zone di coltivazione, sulla base della vocazione produttiva. Uno schema che finora ha potuto concretizzarsi solo in pochi casi, benché di primaria importanza, grazie ai contratti di coltivazione, uno strumento che tuttavia incontra tuttora forti resistenze da parte dei produttori.
I migliori contratti prevedono una graduazione degli acconti e legano il prezzo all’andamento dei mercati, in modo da smorzare le oscillazioni e “tagliare” i picchi, portando di fatto a una certa regolarizzazione dei prezzi. Alcuni produttori si fanno ancora trarre in inganno dalle quotazioni ufficiali, dimenticando che queste non delineano il quadro completo; per esempio, quando esplose la “bolla” dei cereali, con il grano duro a 500 €/t, le quantità effettivamente vendute erano esigue. Gli acquirenti – mulini e pastifici – prima esaurirono le scorte, poi ridussero la produzione in attesa che i prezzi calassero, mentre il mercato era di fatto paralizzato, con i produttori che si lamentavano di non riuscire a vendere.
Le fluttuazioni verificatesi prima e dopo hanno tuttavia dimostrato che i cereali non potranno mai, nel lungo periodo, tornare ai valori di 20, 30 o più anni fa, e questo è un dato di fatto di cui bisogna tenere conto, sia in fase di programmazione aziendale sia in termini di gestione della coltura. Sul primo problema molto si è detto e scritto, ma i risultati pratici sono scoraggianti: sono ancora tanti gli agricoltori (non solo giovani) disposti a pagare canoni di affitto esagerati, pur di aumentare la superficie aziendale. Il prezzo della terra non può e non deve superare il 20-30% del valore della produzione, a seconda della coltura praticata: oltre questo limite il rischio di non coprire i costi è presente anche nelle migliori annate. L’andamento imprevedibile dei mercati e delle condizioni climatiche consiglia inoltre di valutare la convenienza economica su base pluriennale (almeno 3 anni), anche per le colture erbacee. La gestione agronomica è altrettanto importante, perché può influenzare le rese e quindi la Plv, oltre ai costi di produzione: due realtà che, dopo anni di progressivo avvicinamento (margine zero), vedono sempre più spesso la seconda prevalere sulla prima.

Programmare il piano colturale

In regime sodivo la seminatrice è la macchina più importante e richiede una scelta accurata, perché deve essere adattabile a colture diverse e lavorare bene anche in presenza di vegetazione o di residui, senza lasciare scoperta la traccia di semina dopo il suo passaggio.
In regime sodivo la seminatrice è la macchina più importante e richiede una scelta accurata, perché deve essere adattabile a colture diverse e lavorare bene anche in presenza di vegetazione o di residui, senza lasciare scoperta la traccia di semina dopo il suo passaggio.

Per non trovarsi in difficoltà, bisogna quindi programmare il piano colturale partendo dalle buone tecniche di governo del terreno agrario, ricordando che ogni lavorazione deve essere pensata insieme alle altre, sia per la coltura che ci interessa sia per quelle che seguiranno. La semina, lavorazione fondamentale per natura, è balzata in primo piano in tempi recenti, per gli effetti indiretti sui costi della meccanizzazione, in relazione alla possibilità di semplificare più o meno la preparazione del terreno.
La semina diretta, che poteva essere un’opportunità e un’alternativa alle lavorazioni, convenzionali e non, è divenuta invece motivo di interminabili discussioni, di prese di posizione e di preconcetti, che ne hanno di fatto limitato la diffusione. Se guardiamo fuori dai nostri confini, possiamo scoprire che la semina su sodo ha avuto una diffusione molto maggiore che in Italia e continua a convivere con quella su terreno lavorato, per quanto anche il concetto di “lavorazione” sia spesso assai diverso dal nostro. Confidando nel fatto che gli agronomi e gli agricoltori di tutto il mondo ragionino come noi, se ne deve ricavare la conclusione che entrambi i metodi di coltivazione possono avere costi comparabili e che la scelta di una tecnica piuttosto che di un’altra è dovuta solo a motivi agronomici.
Ragionando in questi termini, con riferimento alla realtà italiana, in cui prevale la rotazione fra diverse colture, ragioneremo su 3 ipotesi:
1. il terreno non lavorato subisce nel tempo una serie di trasformazioni che influenzano struttura, porosità, permeabilità e attività biologica, portando a una stabilizzazione della fertilità e delle rese;
2. la lavorazione, ancorché superficiale, limita le perdite di sostanza organica, inibisce parte della carica infestante (malerbe e patogeni) e migliora la permeabilità nel periodo invernale, senza influenzare negativamente la resa rispetto a lavorazioni più intensive;
3. la semina diretta può essere intercalata ad altri sistemi di gestione del suolo senza modificare in senso negativo la fertilità e la resa.
Innanzi tutto, sappiamo che tutte e tre sono state verificate nella pratica e sono riconducibili a solide evidenze scientifiche; ma sappiamo anche che nessuna delle tre è applicabile in tutti i terreni e in tutte le condizioni di campo, e che lo stesso vale per le colture.

Sodo e sempre sodo

Dal punto di vista meccanico, con le minime lavorazioni non è di norma necessaria una seminatrice specifica, se non in casi particolari.
Dal punto di vista meccanico, con le minime lavorazioni non è di norma necessaria una seminatrice specifica, se non in casi particolari.

La prima ipotesi riguarda un regime a sodo permanente, dove il terreno non è mai soggetto ad alcuna lavorazione diversa dal semplice interramento del seme. È una tecnica che dà i migliori risultati in climi temperati, con una distribuzione regolare delle piogge durante l’anno, e con suoli non troppo ricchi di argilla. Il vantaggio principale sta nella riduzione dell’erosione (asportazione di particelle terrose) e del dilavamento (scioglimento e allontanamento degli elementi nutritivi): un fenomeno che fa perdere denaro all’agricoltore, oltre a mettere in crisi le reti scolanti ed il corso dei fiumi. Questa sarebbe la tecnica più adatta ai terreni di collina e montagna, dove l’erosione idrica si manifesta in modo più evidente; invece si è diffusa soprattutto in pianura, dove prevale invece il dilavamento. La regola aurea è il rispetto del terreno: con tempo umido le macchine non entrano in campo, e solo se munite di pneumatici (o cingoli in gomma) tali da non superare il carico unitario di 1-1,5 kg/cmq.
La seminatrice deve essere adatta a lavorare su terreno coperto da vegetazione (colture di copertura) o da residui, con corpi a dischi, capaci di esercitare una forte pressione per tagliare steli e stocchi senza scoprire il terreno. In regime sodivo la seminatrice è la macchina più importante e richiede una scelta accurata, perché deve essere adattabile a colture diverse, deve lavorare bene anche in presenza di vegetazione o di residui, senza lasciare scoperta la traccia di semina dopo il suo passaggio. Il mercato è orientato verso macchine polivalenti con dispositivo interratore a disco (singolo o multiplo), in grado di tagliare steli e stocchi senza “caricare”; la larghezza di lavoro deve essere tale da ridurre l’incidenza della superficie calpestata dalle ruote rispetto a quella lavorata.
Il sodo permanente richiede un accurato programma di difesa fitosanitaria, in mancanza di lavorazioni capaci di ridurre la carica infestante. Ciò non significa che non sia possibile applicare questa tecnica anche in regime biologico, ma in tal caso i costi di gestione delle colture di copertura (dalla semina fino all’arresto forzato dell’attività vegetativa) non sono competitivi rispetto alle normali lavorazioni al terreno.

Semina e minimum tillage
La seconda ipotesi, con semina contemporanea o successiva alla minima lavorazione, è attualmente la più diffusa, perché rappresenta un compromesso fra il sodo “puro” e le tecniche convenzionali. Nei climi più caldi e asciutti il deposito in superficie dei residui colturali, oltre a costituire un potenziale pericolo di incendio, comporta una troppo rapida degradazione della sostanza organica, con perdita dei componenti volatili. Un leggero interramento dei residui è assai più efficace, mentre la rottura dello strato superficiale, interrompe la risalita capillare dell’acqua e riduce le perdite di umidità per evaporazione; il massimo effetto si ha lavorando il terreno fino alla profondità di deposizione del seme. Per quanto superficiali, le lavorazioni bloccano o contengono alquanto lo sviluppo delle malerbe, facendo risparmiare un intervento di diserbo, un costo destinato ad aumentare se dovessero acuirsi le resistenze all’impiego del glyphosate.

Il mercato delle seminatrici da sodo è orientato verso macchine polivalenti con dispositivo interratore a disco (singolo o multiplo).
Il mercato delle seminatrici da sodo è orientato verso macchine polivalenti con dispositivo interratore a disco (singolo o multiplo).

Dal punto di vista meccanico, con le minime lavorazioni non è di norma necessaria una seminatrice specifica, se non in casi particolari. Nelle macchine combinate con rotore ad alta velocità, che opera fino alla profondità di deposizione del seme, la distribuzione può essere a spaglio, in quanto il seme viene ricoperto dal miscuglio di terra e detriti prodotto dal rotore. Dove invece la minima lavorazione è svolta con un preparatore a utensili fissi e folli, sistemati su più ranghi, la seminatrice può essere simile a una macchina convenzionale, ma assai più robusta. Anche in questo secondo caso, però, è opportuno ridurre al massimo l’incidenza della superficie calpestata dalle ruote rispetto a quella lavorata, una condizione che si realizza solo allargando la larghezza di lavoro (da 4 metri in su).

Semina diretta
La pratica di eseguire la semina diretta solo per certe colture, in un regime rotazionale pluriennale, ha raggiunto superfici di tutto rispetto a livello nazionale, soprattutto il grano. È una soluzione molto pratica e flessibile, perché inserisce, all’interno del normale avvicendamento colturale, i diversi vantaggi della semina diretta:
• permette di anticipare la semina con tempo umido;
• nei climi aridi, evita la perdita di umidità dovuta alle lavorazioni profonde;
• riduce l’erosione e il dilavamento durante il periodo più piovoso dell’anno;
• riduce i costi di produzione senza influire sulle rese.
Un errore gravissimo riguarda lo stato del terreno al momento della semina, che può influenzare negativamente la riuscita dell’operazione, riducendo l’investimento effettivo e la resa finale. Proprio questo è il principale motivo che aveva portato la semina diretta a un periodo di crisi, dopo l’iniziale entusiasmo: si credeva – contro ogni considerazione agronomica – che le lavorazioni fossero superate in blocco e che il compattamento del terreno, aggravato dalla progressiva perdita di sostanza organica (vedi box), fosse un’inutile preoccupazione. Se la terra è stata calpestata dal ripetuto passaggio di mezzi pesanti o si è compattata per effetto di lavorazioni intempestive e condizioni climatiche sfavorevoli, la semina diretta è sconsigliabile. Molto meglio intervenire con un attrezzo specifico (decompattatore) o, in mancanza, con un ripuntatore ad ancore diritte, per ripristinare la permeabilità senza creare zolle in superficie, che poi richiederebbero ulteriori lavorazioni.
La semina diretta di alcune colture, nell’ambito di una rotazione, non richiede quel periodo di assestamento che caratterizza (talvolta in senso negativo) il regime sodivo permanente, e non manifesta effetti apprezzabili sulle rese e sulla qualità del prodotto. Per di più, è realizzabile anche su quei terreni che, a causa dell’elevato contenuto di argilla, tendono a costiparsi naturalmente, rendendo inapplicabile il regime sodivo; ciò è dovuto all’alternanza di annate con e senza lavorazioni, che ripristinano periodicamente la permeabilità in profondità.
Con questo sistema la scelta della seminatrice è più libera, nel senso che sono possibili soluzioni diverse dagli interratori a disco, specialmente quando non ci sono troppi residui; dove invece il volume della biomassa è notevole (come con il mais da granella o il sorgo), il sistema a dischi resta la soluzione tecnica migliore..

Seminatrici, tre ipotesi per la realtà italiana - Ultima modifica: 2017-09-13T11:15:38+02:00 da Lucia Berti

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