Prezzi agricoli sostenuti ma costi alle stelle

the corn unloaded in a heap after last harvesting
Gli attuali listini permettono di fare fronte agli aumenti dei costi, ma per quanto tempo ancora? Si rischia un effetto simile a quello del 2008/09

Mentre il mondo si trova a dover fronteggiare una pandemia che sembra durare assai più di quanto potevano pensare i più pessimisti, e l’attenzione dell’opinione pubblica è monopolizzata dai fatti contingenti, può sembrare assurdo ritornare brevemente al passato e ricordare i temi di discussione di qualche decennio fa.

Restando nel campo agricolo, il passaggio del secolo aveva mostrato i primi effetti dell’apertura delle frontiere economiche, dopo secoli di sbarre e reticolati sorvegliati da occhiuti e inflessibili doganieri: un mondo in cui tutti potessero dire la loro in un regime di libera concorrenza. L’esperienza ha mostrato qualcosa che gli agromeccanici già conoscevano, perché la concorrenza è bella e utile solo se è assolutamente libera: se qualcuno può contare su un vantaggio anche minimo, diventa un gioco estremamente pericoloso che impoverisce tutto il sistema. La concorrenza a livello mondiale è tutt’altro che libera: mentre in Europa si cercava di ridurre i contributi Pac in seguito agli anatemi lanciati dall’Organizzazione mondiale del commercio, poi si scopriva che le grandi aziende agricole di mezzo mondo godevano di ogni tipo di favori. Dal contributo statale sui carburanti (dove, invece di tassarli, lo stato aiuta a calmierarne il prezzo) ai contributi diretti (come i nostri, né più né meno), fino alle esportazioni sottocosto, una pratica sleale che le economie più deboli mettono in pratica per raccogliere valuta pregiata, magari affamando la popolazione. Non entriamo poi nel campo delle altre commodities, per così dire, strategiche, come petrolio, gas naturale e altri vettori energetici, che spesso entrano a far parte delle politiche commerciali insieme a quelle di natura agricola e alimentare. L’unico fattore comune a tutti è che ognuno cerca di giocare le sue carte migliori, ma non si può parlare di vera e propria concorrenza: il paese più potente si impone sul più debole.

Le debolezze del mercato globale

Un altro svantaggio di questo indirizzo politico risiede nella globalizzazione, un fenomeno che, almeno per quanto riguarda l’Italia, ha sostenuto il settore manifatturiero, ma ha depresso l’occupazione per effetto della delocalizzazione della produzione. È vero che se sul mercato mancano le arance italiane, si possono comprare in Nord Africa, ma alla lunga l’apertura di nuovi canali commerciali finisce per danneggiare la produzione nazionale. Sugli ortofrutticoli la manodopera è la voce più importante e fra chi paga un operaio 50 euro a giornata, più i contributi e i costi accessori, e chi se la cava con qualche euro, non si può parlare di concorrenza; nella Ue c’è chi ha eluso il problema riducendo i salari minimi e i contributi. Sui banchi del supermercato il prodotto – quando non è spacciato per italiano – esibisce un’etichetta che informa il consumatore che i lavoratori erano in regola: ma se viene venduto a meno di 1 euro al kg, quali storie di sfruttamento potrà nascondere, senza che la televisione se ne preoccupi?

Basta consultare i listini delle Camere di commercio per capire che siamo in una fase di incertezza, legata anche al fatto che, con l’esclusione del Nord, le semine dei cereali vernini si sono concluse da poco e il mercato degli azotati è ancora fermo

In altri paesi, europei e non solo, i governi stanno molto attenti a difendere i produttori locali, uscendo talvolta dalle regole del commercio internazionale, mentre in Italia quest’azione di sostegno delle produzioni strategiche è molto meno evidente.

Solo in Italia siamo riusciti a rinunciare a settori portanti della nostra economia senza costruire alternative. Abbiamo rinunciato al nucleare, all’acciaio, allo zucchero, alla chimica di base, insomma a tutto ciò che altrove si sta ben attenti a non perdere: il fatto di avere un solo impianto per la produzione di ammoniaca, peraltro di proprietà estera, ci fa comprendere cosa abbiamo perduto sul piano strategico.

Fino a qualche anno fa, con mercati e frontiere bene aperti e una produzione di materie prime eccedentaria rispetto ai fabbisogni, la globalizzazione sembrava davvero una rosa senza spine: chi si opponeva era tacciato di nazionalismo, se non proprio di voler tornare all’autarchia. Da notare che in ogni altra parte del mondo nessuno si sarebbe mai meravigliato di volersi tenere aperta qualche porta, dalle costosissime bistecche giapponesi alle coltivazioni ortofrutticole (in serra!) dell’Islanda o della Scandinavia, secondo il principio che non si sa mai.

Ma la ruota gira, e quando si sono sommati diversi effetti negativi, dalla pandemia agli estremi climatici, dalle nuove tendenze nei consumi alle emergenze fitosanitarie, senza contare le pressioni politiche sull’energia, la corsa alle riserve ha messo in luce le debolezze del mercato globale. Già lo scorso anno si era vista una carenza di componenti elettronici sul mercato, segno che la Cina ha sofferto per l’epidemia assai più di quanto ufficialmente dichiarato; il problema, come si è potuto vedere, ha afflitto tutto il mondo e tutte le produzioni industriali. La riduzione del numero degli impianti attivi nella produzione di ammoniaca, composto che sta alla base di varie filiere della chimica di sintesi oltre che dell’urea e del nitrato ammonico, i principali fertilizzanti azotati, è la prova della nostra mancata attenzione alle strategie commerciali.

Scorte ai minimi storici

Sull’attuale prezzo di questi indispensabili mezzi tecnici incide, come si sa, l’aumento incontrollato delle quotazioni degli idrocarburi e specialmente del gas naturale: l’industria dell’ammoniaca era nata vicino ai poli petrolchimici proprio per sfruttare tali combustibili, allora a basso costo. L’impennata del prezzo del metano aveva fatto fermare gli impianti, per non produrre a costi alti ciò che si rischiava di vendere a prezzi più bassi, facendo scarseggiare perfino la soluzione di urea per catalizzatori. Le quotazioni hanno raggiunto livelli giudicati insostenibili (quasi 2 €/kg di azoto) ma, nonostante il prezzo, molti fornitori sono riluttanti a fare ordini in attesa di una stabilizzazione dei prezzi, che certamente ci sarà, ma che resterà sempre legata al costo dell’energia.

Basta consultare i listini delle Camere di commercio per capire che siamo in una fase di incertezza, legata anche al fatto che, con l’esclusione del Nord, le semine dei cereali vernini si sono concluse da poco e il mercato degli azotati è ancora fermo. La tendenza al rialzo verificatasi lo scorso anno ha tratto in inganno molti imprenditori, convinti che si trattasse di una oscillazione dovuta al riallineamento dei prezzi dopo la caduta del 2020, col risultato che la campagna 2022 si apre con scorte ai minimi storici. D’altra parte, non sarebbe neppure giustificabile un aumento come quello che hanno conosciuto i cereali e la maggior parte delle commodities agricole; gli attuali listini permettono di fare fronte agli aumenti dei costi, ma per quanto tempo ancora? Si rischia un effetto simile a quello del 2008/2009, quando la campagna iniziò con prezzi agricoli importanti e costi di produzione elevati, per poi concludersi con listini ampiamente ridimensionati che tolsero agli agricoltori anche quel poco che avevano guadagnato l’anno precedente.

La questione fitofarmaci

Nel frattempo, il mondo è cambiato, e non poco: solo le macchine, per dirne una, sono aumentate di prezzo di oltre il 50%, mentre l’espandersi delle specie aliene ha messo in ginocchio la frutticoltura; il costo della difesa fitosanitaria è ulteriormente cresciuto, con l’abbandono definitivo di molti principi attivi. È legittimo e auspicabile che i prodotti fitosanitari più pericolosi per l’uomo e dell’ambiente vengano progressivamente revocati, ma siamo poi sicuri che questo sia vero?

La difesa fitosanitaria è inversamente proporzionale alla diffusione e alla specializzazione degli organismi parassiti o infestanti: questo spiega il motivo dell’aggravarsi delle infestazioni, che costringe a individuare strategie sempre più sofisticate per eliminarne i responsabili. Quando la coltura del pomodoro da industria iniziò a “colonizzare” la pianura padana qualche decennio fa, i successi iniziali furono memorabili, proprio perché i nemici naturali della coltura non si erano ancora specializzati, e il discorso può essere esteso al kiwi e ad altre piante “esotiche”.

La campagna 2008/2009 iniziò con prezzi agricoli importanti e costi di produzione elevati, per poi concludersi con listini ridimensionati che tolsero agli agricoltori anche quel poco che avevano guadagnato l’anno precedente

La deforestazione – termine che fa pensare alla foresta pluviale abbattuta per fare posto alle palme da olio – si sta diffondendo anche ad altri ambienti favorevoli all’agricoltura, non necessariamente naturali, con la sostituzione di pratiche poco invasive con altre ambientalmente scorrette. Se la specializzazione dei parassiti – per i vincoli ambientali o giuridici (revoca prodotti) – dovesse costringere ad abbandonare (in Europa) certe colture specializzate, chi ci dice che le stesse non potranno diffondersi in altri paesi con legislazioni meno severe?

I residui di pesticidi, vietati nell’Unione europea, ritrovati nel miele delle api allevate in malga (a 2.000 metri), dimostra che mentre le norme seguono i confini politici e amministrativi, qualunque sostanza immessa nell’atmosfera può viaggiare per migliaia di chilometri. L’ambiente non è legato ai popoli e alle nazioni, è uno solo per tutta l’umanità: quel sottile strato di aria (meno dell’1% del diametro) che avvolge il nostro pianeta porta in giro tutto quello che vi viene immesso, volontariamente o no. Se l’Unione europea revoca un fitofarmaco che consente di difendere un certo prodotto agricolo e i consumatori non rinunciano a comperarlo, significa che lo si dovrà andare a produrre altrove, magari mettendo a coltura (deforestando) un ambiente naturale: questa è difesa dell’ambiente? Al consumatore svedese interessa fino a un certo punto sapere se il grappolo d’uva viene dall’Italia o dalla Georgia, o magari dal Cile; ma, quando si vota, il suo voto vale come quello dell’Italia. Questo per dire che il discorso sui fitosanitari è assai più ampio di quanto si creda: chi produce solo cereali e foraggi può fare bella figura con i consumatori e chiedere di mettere al bando “pesticidi” di cui non avrà mai bisogno; chi vive di ortofrutticoli, come l’Italia, dovrebbe fermarsi a riflettere.

Una nuova “rivoluzione verde”

Oltre a trovare soluzioni alternative per il “made in Italy”, che rischia di vedersi privato di molti prodotti di base, bisogna cercare di costruire una nuova “rivoluzione verde”: due miliardi e mezzo per il settore biologico sono una grande opportunità, ma non si devono trasformare in un contributo sulla proliferazione delle carte.

Prima di tutto bisogna seppellire le ideologie, insieme con l’ignoranza che nascondono: dato che tutto è fatto di chimica, proviamo a smettere di considerare la chimica come una scienza cattiva. Secondo, bisogna rinunciare ai luoghi comuni, che nascondono potenti interessi economici: la mobilità elettrica – divenuta simbolo della “scienza buona” che protegge l’ambiente – si fonda sull’impiego di rari e preziosi metalli estratti dai lavoratori schiavi del “Sud del mondo”. Sgombrato il campo dal nuovo oscurantismo e dalla caccia alle streghe, che riempie le pagine della stampa generalista, bisogna ripartire con la tecnologia: una tecnologia che già esiste, ma fatica a essere accettata al posto del quadretto idilliaco di un’agricoltura che non c’è mai stata. A beneficio dei tanti ignoranti-parlanti (o scriventi) che dominano l’informazione, vogliamo ricordare che l’Italia “contadina” è quella che ha popolato Nord e Sud America, Australia e mezza Europa di emigranti, perché non riusciva a produrre cibo per tutti. Un rischio, peraltro, meno remoto di quanto si creda: è di questi giorni la notizia che la Cina si è procurata oltre la metà delle aree coltivate a grano nel mondo, nella consapevolezza che coi microchip si fanno i soldi, ma senza pane si perde la guerra.

Se vogliamo continuare a produrre pasta “italiana” bisogna che il grano ce lo facciamo da soli, senza il rischio di doverlo comprare in Cina, aumentando le rese e la qualità. Per fare questo non basteranno i soldi (tanti) del Pnrr, se verranno sperperati solo per il consenso elettorale: bisogna investirli per un futuro che purtroppo è già arrivato e forse non c’è più tempo. Bisogna agire, subito.


Ma la tecnologia ci può aiutare

L’incremento dei costi dei fertilizzanti azotati potrà forse segnare una battuta d’arresto, ma il fatto di essere collegati a quelli dell’energia consigliano di accantonare la logica, prevalentemente quantitativa, a cui ci siamo abituati finora.

Le strategie di intervento possono seguire tre filoni principali:

  1. Miglioramento dell’efficienza del fertilizzante:

-  rallentamento del processo di nitrificazione, con l’impiego di sostanze apposite;

- distribuzione localizzata del granulare con contemporaneo interramento, per ridurre la perdita di azoto sotto forma ammoniacale;

- apporto programmato di sostanza organica, che con il processo di umificazione protegge l’azoto legandolo a composti organici.

  1. Utilizzo dei sottoprodotti delle attività agricole, zootecniche e di prima trasformazione, che non sono sostanze da smaltire, ma rappresentano una preziosa risorsa:

- reflui zootecnici: possono essere usati tal quale se le distanze sono di pochi Km; per distanze maggiori deve essere ridotto il contenuto di acqua, al fine di contenere i costi di trasporto;

- localizzazione nel tempo: il fertilizzante deve essere somministrato quando la coltura è in grado di usarlo senza che nulla vada perduto;

- localizzazione nello spazio: il prodotto deve essere distribuito in prossimità della pianta dove si ha la massima concentrazione di radici e quindi il massimo assorbimento.

  1. Gestione del suolo: le piante sono assimilabili a un impianto solare che ha bisogno di una superficie esposta alla luce assai maggiore di quella occupata dalle radici, come dimostrano le colture idroponiche e fuori suolo: per questo non è necessario lavorare, fertilizzare e irrigare (al bisogno) tutta la superficie coperta dall’apparato fogliare, ma solo una parte:

- lavorazione a strisce o a settori: il fertilizzante viene distribuito solo nella parte di terreno in cui è più facilmente assorbito, riducendo le perdite per dilavamento, lisciviazione ed evaporazione della fase gassosa;

- limitazione della profondità di lavorazione: la sostanza organica o il fertilizzante devono essere concentrati nel volume di suolo esplorato dalle radici, perché ciò che resta fuori può essere perduto (i composti azotati sono assai solubili).

  1. Gestione delle rotazioni: far precedere una coltura miglioratrice ad una avida di azoto è oggi una delle basi del metodo biologico, soggetto a forti vincoli, è utile anche nell’agricoltura convenzionale:

- semina di colture capaci di trattenere gli elementi nutritivi: le cover crops consentono di proteggere il terreno durante i mesi invernali, specialmente nei climi dove le piogge si concentrano proprio in tale periodo;

- impiego di colture (leguminose, ecc.) capaci di fissare nel terreno l’azoto atmosferico, grazie a speciali batteri che consente di ottenere lo stesso risultato – in piccolo – dei reattori per la sintesi dell’ammoniaca.

Da notare che in gran parte del mondo (Italia esclusa) è proprio l’ammoniaca anidra a costituire il fertilizzante azotato più economico ed efficace: da noi si impiegano prodotti da essa derivati come urea e concimi ammonici (nitrato e solfato). Ma quando, come ora, ci si rende conto che questo modello produttivo sta andando in crisi, può essere l’occasione per adottarne un altro, più efficace e meno dispendioso per l’agricoltura e per l’ambiente in cui viviamo.

Prezzi agricoli sostenuti ma costi alle stelle - Ultima modifica: 2022-01-17T09:58:14+01:00 da Roberta Ponci

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