Il concetto di coltivazione comprende, nell’immaginario collettivo, diversi significati che meritano particolare attenzione. Quello più generale riguarda l’insieme delle operazioni che permettono di ottenere piante capaci di produrre un reddito – elemento fondante dell’impresa – a partire da un qualunque materiale di propagazione, siano essi semi, oppure piante o parti esse, per il loro allevamento fino ad ottenere esemplari adulti e produttivi di reddito.
Ma nello stesso concetto sono comprese anche quelle lavorazioni, di varia intensità, che permettono di creare le migliori condizioni per lo sviluppo del materiale di propagazione, al punto che il verbo coltivare è divenuto sinonimo di “lavorare il terreno agrario”. Neppure la semina diretta, su terreno sodo, può escludere una qualche forma di lavorazione: nel caso specifico questa è estremamente limitata, ma necessaria per inserire nel suolo il seme. L’espressione “agricoltura conservativa” non deve quindi essere intesa come assenza assoluta di fattori di disturbo rispetto alla biologia del terreno agrario: è proprio la nozione di “agricoltura” a dirci che ci troviamo al di fuori di una situazione completamente naturale.
Divisioni superate?
Le distinzioni fra agricoltura convenzionale, conservativa o biologica, che avevano dominato gli ultimi due decenni, si stanno via via riducendo, sull’onda del progresso tecnico-agronomico. Un processo non ancora completamente percepito neppure dalle statistiche: l’Istat rileva infatti un consumo di presidi sanitari prossimo a 130 milioni di kg, che ripartiti su una superficie trattata di poco superiore a 10 milioni di ettari, porta ad un consumo unitario di ben 13 kg/ha. L’impressione è che il dato sia sovrastimato: se sui seminativi non si superano i 3-4 kg/ha, e se questi coprono oltre metà della Sau nazionale, la media degli impieghi sulle colture specializzate arriverebbe a sfiorare i 25 kg/ha, forse troppi. Chi avesse da obiettare che esiste anche una quota rilevante di ettari condotti in regime biologico dovrebbe riflettere sul fatto che sono proprio quelli che consumano le maggiori quantità, perché la difesa si fonda su composti elementari, a base di rame o zolfo. In realtà, lo stesso regime convenzionale, quando si pone obiettivi di qualità, ricorre sempre più a sistemi di difesa integrata: si tratta solo dove è necessario, impiegando agrofarmaci di ultima generazione, sempre meno pericolosi per l’uomo e per l’ambiente.
Le strategie per il contenimento delle infestanti nei periodi in cui il terreno non viene coltivato si stanno orientando verso le colture di copertura o le lavorazioni leggere, anche in conservativa, su cui ha certamente pesato la controversa vicenda del glifosate. D’altra parte, lo stesso regime biologico trova nelle lavorazioni meccaniche la principale, ma non l’unica, tecnica per la difesa dalle malerbe: magari si ridurrà l’impiego di agrofarmaci, ma a spese di un maggiore consumo energetico. Il nostro discorso non mira ad annullare le differenze fra i diversi regimi di conduzione agronomica, ma solo a far osservare che la natura non fa regali: ogni tecnica ha i suoi pregi e i suoi difetti, in termini di impatto sull’ambiente.
Agricoltura convenzionale
Le lavorazioni al terreno sono ritenute valide, dal punto di vista agronomico, o sono state superate dai tempi? La risposta potrebbe essere positiva, alla luce delle precedenti considerazioni, ma occorre fare alcune indispensabili distinzioni. Non esiste una risposta univoca, nel senso che bisogna considerare il terreno sul quale si opera, le colture praticate, le condizioni climatiche e le possibilità tecniche di intervento (ad esempio, la disponibilità di acqua irrigua ed il metodo adottato).
L’aratura, tanto per cominciare, è utile, poco utile o dannosa? Una domanda totalmente oziosa, questa, perché come si è detto ogni strategia deve essere calata nel contesto reale in cui si lavora. Se invece si parla di aratura profonda, il discorso si fa più semplice: con quello che viene a costare, la lavorazione viene svolta solo dove si rivela indispensabile per lo sviluppo della coltura, tenuto conto dei costi accessori legati alle successive operazioni di affinamento. In linea generale l’aratura mantiene una propria validità, quando è consigliabile interrare i residui colturali a profondità sufficiente a evitare le perdite di sostanza organica; nei climi umidi, si può ottenere lo stesso effetto con un interramento più leggero, appena sotto la superficie. Nei nostri ambienti l’aratura – a profondità limitata, di solito non superiore a 30-35 cm – è ancora considerata indispensabile, anche se con qualche distinzione: per esempio, quando si vuole ridurre la carica infestante, costituita non solo dai semi delle malerbe, ma anche dalle forme svernanti di parassiti animali e vegetali. Esistono disciplinari di produzione, ad esempio, che impongono l’aratura in caso di ristoppio, proprio per l’azione di contenimento che riesce ad esercitare nei confronti di spore e conidi, responsabili di infestazioni fungine suscettibili di produrre micotossine.
Scopo della lavorazione è quello di regolare, attraverso l’interramento, la velocità dei processi di decomposizione dei residui; un’azione che sarà meno incisiva nei suoli e nei climi umidi, e più significativa degli ambienti secchi e aridi. In questi ambiti bisogna però stare attenti al momento in cui si lavora il terreno: se alla coltura principale ne segue una intercalare, una lavorazione profonda può far perdere umidità, fino alla rottura della risalita capillare. In tal caso l’irrigazione non potrà fare miracoli: le piante saranno alla mercé di uno strato superficiale umido, ma non potranno avvantaggiarsi delle fonti profonde.
Fatica però ad affermarsi, fra le lavorazioni convenzionali, l’aratura a minima profondità (sotto i 25 cm), ancora legata al ricordo di quella attuata con il traino animale. Nonostante sia ormai trascorso oltre mezzo secolo, anche nelle aree più marginali, l’aratura superficiale è ancora associata, a torto, alle rese (scarse) del periodo precedente alla “rivoluzione verde”. In realtà, è il tipo di aratura più praticata nel mondo (ovviamente escludendo l’agricoltura primitiva), perché consente di ottenere gli stessi risultati in termini sanitari (riduzione della carica infestante) di un’aratura profonda, limitando però l’interramento dei residui colturali al solo strato attivo. Se il regime biologico si espanderà, come sembra altamente probabile, si tratta di una macchina da non sottovalutare, perché potrebbe essere una valida alternativa alla minima lavorazione – che non controlla a dovere le malerbe – anche se deve essere parte di un programma più articolato. All’aratura superficiale deve seguire una minima lavorazione, per l’attivazione dei semi delle malerbe (falsa semina); nel più breve tempo possibile si semina per dare alla coltura un vantaggio competitivo sulle infestanti, onde poter poi impiegare utensili per il diserbo meccanico (sarchiatori fra le file binate e strigliatori a larghezza intera). In regime convenzionale, invece, il fattore negativo dell’aratura superficiale è nel costo: ci vuole comunque un ripasso, e alla fine costa di più di un passaggio singolo con una grande combinata ad utensili fissi e/o folli. Lo stesso dicasi per gli aratri a disco, che con i potenti trattori attualmente in uso possono essere agevolmente sostituiti dai coltivatori combinati a più ranghi di utensili, capaci di preparare il terreno per la semina senza bisogno di lavorazioni aggiuntive.
Fra le lavorazioni profonde, un ruolo crescente rispetto all’aratura comincia a essere assunto dalla discissura, eseguita con utensili conformati in modo da provocare la fessurazione del terreno senza necessariamente invertire gli strati. Anche qui si deve fare i conti con una tecnica agronomica specifica, che si fonda su precise motivazioni agronomiche, opposte a quelle delle arature. Scopo della lavorazione resta quello della fessurazione del suolo, con prevalenza del taglio verticale rispetto a quello orizzontale; l’azione di interramento dei residui è parziale, ma soprattutto avviene lungo tutto il profilo verticale. Non si ha quindi un trasporto dei residui in profondità (né un riporto in superficie degli strati profondi) ma solo un rimescolamento quasi uniforme, almeno nella parte superficiale; nel contempo si effettua una fessurazione verticale che favorisce la permeabilità del suolo. Se l’operazione è svolta con terreno tendente al secco, l’azione delle ancore determina una fessurazione orizzontale, più o meno intensa, lungo le linee di discontinuità (frattura): non avendosi però un taglio orizzontale, non si verifica la compattazione del piano di lavoro degli utensili e non si crea quella “suola” che riduce la percolazione profonda delle acque. A volte queste lavorazioni trovano impiego anche nel regime a sodo “puro” per ripristinare la permeabilità profonda a seguito di compattazioni accidentali: grazie ad una particolare forma degli utensili, lo strato attivo (20-30 cm) viene distaccato e lasciato ricadere sul posto.
Lavorazioni ridotte
La decomposizione dei residui vegetali può avvenire anche in superficie senza perdite apprezzabili, solo se il clima è davvero molto umido: per estremizzare il concetto, il regime a sodo permanente è stato sviluppato in Gran Bretagna, dove le piogge sono frequenti e il suolo è leggero e permeabile. Anzi, è tanto permeabile che tende ad essere dilavato dalle precipitazioni, con il risultato che i nutrienti vanno a finire in profondità (leggi in falda) senza essere di alcun aiuto alle colture agrarie; la copertura permanente (residui e colture) facilita la trattenuta delle acque, riduce l’erosione e contribuisce al mantenimento dello strato attivo. Condizioni similari sono riscontrabili in altre parti d’Europa e del nostro Paese, specialmente sul versante sinistro del Po; è per questo, per esempio, che il regime a sodo permanente è più diffuso in Piemonte, Lombardia e Veneto, almeno nei suoli più sciolti. La semina senza lavorazione in realtà è un’utopia: il fatto stesso di dover aprire una traccia per interrare il seme determina un disturbo al terreno, per piccolo che sia. Questa tecnica ha preso piede semmai in ambito rotazionale, specialmente per la semina autunnale dei cereali, perché manifesta effetti positivi sia sul terreno, sia sulla coltura.
La tropicalizzazione del nostro clima ha infatti portato a una riduzione più o meno generalizzata delle piogge di fine estate o inizio autunno (con la sola eccezione della fascia a ridosso dell’arco alpino), che costringe a seminare su terreni molto più asciutti che nel passato. In queste condizioni si riesce a sfruttare l’umidità residua per favorire l’emergenza, anche con piogge scarse; ma anche quando la tendenza si inverte, è certamente più facile seminare su un terreno sodo – appena si asciuga in superficie – che su uno reso già soffice dalle lavorazioni. Sul piano della conservazione dello strato attivo, la semina su sodo aiuta a ridurre l’erosione: le lavorazioni secondarie creano aggregati artificiali (per frattura meccanica) di piccole dimensioni, facilmente asportabili da piogge intense (pianura) o dal ruscellamento superficiale (collina). Su terreni in pendenza, il fenomeno può assumere effetti disastrosi, asportando terra, semi e perfino le giovani piante; in aggiunta, si ha il dilavamento di nutrienti e agrofarmaci, concentrati proprio nello strato più superficiale.
La semina diretta delle colture a ciclo invernale non riesce a impedire del tutto il ruscellamento delle acque meteoriche, neppure quando lo strato di residui colturali ha uno spessore importante; ma anche con pochi residui il terreno ha maggiore coesione e risulta meno facile da rimuovere. Questo spiega il successo che la semina diretta dei cereali vernini ha avuto negli ultimi anni sul versante orientale della penisola, dall’Emilia alla Calabria: elemento comune di questa fascia geografica, a di là del clima, è la presenza di suoli argillosi soggetti a erosione.
Le lavorazioni ridotte si collocano in una fascia intermedia, sia come effetti, sia come costi: tuttavia su quest’ultimo aspetto non sembrano avere sfondato rispetto all’alternanza fra lavorazioni a profondità ordinaria – per le colture da rinnovo – e alla semina su sodo per i cereali vernini. Il concetto di intensità delle operazioni colturali, da orizzontale – nell’ambito dell’annata agraria – si sposta al livello verticale, spalmato sul ciclo della rotazione; in questo cambio di strategia la stessa distinzione fra lavorazioni ordinarie e ridotte sta perdendo di significato. Nella pratica agronomica si preferisce pertanto alternare lavorazioni convenzionali per le colture più esigenti (orticole di pieno campo e mais), ridotte per quelle meno sensibili (oleaginose) e minime o semina diretta per i cereali a ciclo invernale. Ma non si pensi che le esigenze agronomiche e ambientali siano passate in secondo piano rispetto a quelle economiche: la diffusione di quest’alternanza su una superficie tanto vasta è una garanzia del fatto che agricoltori, agromeccanici e tecnici abbiano fatto bene i loro conti. D’altro canto lo stesso fenomeno si verifica, seppure in modo più articolato, anche nell’area padana e sul versante tirrenico e le isole: con gli attuali prezzi dei prodotti agricoli l’imperativo è non sprecare risorse preziose.
Sostanza organica, come fare?
Uno degli obiettivi delle lavorazioni è quello di interrare i residui vegetali o le deiezioni animali, principali fonti di sostanza organica. La pratica, di origini antichissime, è strettamente legata al binomio morte-rinascita: ciò che non può più servire, grazie al passaggio attraverso la terra, sarà la base di un nuovo ciclo vitale.
Ma la convinzione che il terreno possa modificare e trasformare la materia, dandole nuova vita, non è nata dal nulla: senza conoscere gli organismi e i processi biochimici che decompongono la sostanza organica, gli antichi ne avevano compreso gli effetti, pur non avendo gli strumenti per analizzarne le cause. Se il processo avviene correttamente, l’attività biologica produce una serie di composti organici (acidi umici e fulvici) che stabilizzano la materia organica e la legano alle particelle minerali.
La tessitura – o granulometria – del terreno è uno degli elementi da prendere in considerazione per valutare la profondità ottimale di interramento dei residui o degli apporti forniti con deiezioni animali, per una equilibrata decomposizione della sostanza organica.
L’altro elemento, lo abbiamo visto, è l’andamento climatico: una decomposizione troppo rapida porta alla mineralizzazione, con perdita di carbonio come anidride carbonica e metano, e di azoto come ammoniaca: tutti gas responsabili, oltre che dell’effetto serra, di un grave danno economico.
Atteso che il principale problema dei terreni italiani è ormai determinato da una perdita progressiva di componenti organiche e che la mineralizzazione dei suoli è considerato il primo sintomo della desertificazione, bisogna a tutti i costi invertire la tendenza. Non è un processo facile, né rapido: se vogliamo modificare il contenuto di sostanza organica su una profondità di 30 cm (corrispondenti allo strato attivo), il volume di terra ammonta a 3.000 mc. Prendendo per buona una densità apparente (terreno secco) di 1,7 t/mc, il peso dello strato di cui vogliamo migliorare la composizione è intorno a 5100 t; se l’obiettivo è di aumentare il contenuto si sostanze organiche del 1%, ci vogliono ben 51 t/ha di sostanza organica già trasformata in humus. Considerato il valore medio degli apporti (5-15 t/ha di sostanza secca, a seconda della coltura), l’obiettivo può essere raggiunto nel volgere di diversi anni, tenuto conto delle inevitabili perdite e del rapporto di conversione del residuo vegetale tal quale in humus stabile.
Quanto detto vale nel caso in cui i residui restino in campo e siano adeguatamente trinciati per favorirne la decomposizione; se invece si raccoglie e si pressa tutto – paglia e stocchi – gli apporti sono decisamente inferiori, e limitati a radici, pula e parte basale dei culmi.
In queste condizioni, le perdite tendono ad essere maggiori degli apporti e il terreno si avvia ad una mineralizzazione progressiva. Qualcuno potrebbe osservare che le colture fuori suolo fanno a meno della sostanza organica e rendono assai di più di quelle allevate in terra; giusta osservazione, ma un ettaro di mais in coltura idroponica avrebbe un costo insostenibile (inoltre, bisognerebbe legare ogni culmo a un tutore). In realtà il terreno “povero” diventa più sensibile al contenuto di umidità: le particelle minerali scorrono fra loro se c’è troppa d’acqua (effetto “sabbie mobili”), o si impaccano se ce n’è poca. Inoltre, è assai più difficile, per le radici, estrarre acqua da un suolo minerale che da uno organico, in cui è più facile grazie alla presenza di sostanze colloidali: al diminuire dell’umidità la pianta ritarda la fase di stress idrico, consuma meno energia e produce di più.