Chi semina raccoglie, si dice fin dalle epoche più remote, quando gli strumenti tecnici erano tanto primitivi da far dipendere il risultato solo dall'andamento delle stagioni e dai ritmi della natura.
Una certa idea di agricoltura che qualcuno ancora vagheggia, dimenticando che le catastrofi climatiche e le conseguenti carestie sono state per millenni il principale fattore limitante della crescita demografica. Il ritorno all'agricoltura del passato – che in Europa significava fame e miseria – sarebbe un doppio passo indietro: primo, perché si fondava su profonde disuguaglianze sociali; secondo, perché aumenterebbe la dipendenza dal clima, forse il principale fattore che può limitare la produzione.
Ritorno al passato. Sicuri sia la strada giusta?
Chi propugna la tesi che l'agricoltura debba tornare al lavoro manuale dovrebbe cominciare per primo a ridurre la dipendenza dalla tecnologia: riscoprire la bicicletta e i mezzi pubblici, rinunciare ai 20° d'estate e ai 25° d'inverno, scegliere prodotti locali e di stagione, pagandoli ciò che costano e rifuggendo “sottocosto” e cibi esotici. Anche questi meriterebbero maggiore attenzione: chi va a controllare se il prodotto importato è stato coltivato secondo le nostre regole, in Paesi che negano le libertà più elementari e la cui ricchezza si concentra nelle mani di pochi?
Non produciamo abbastanza
L'indicazione dell'origine del prodotto primario in etichetta è un utile strumento di conoscenza del da parte dei consumatori, ma quanti sono quelli che la leggono davvero? Se si guarda alle statistiche dei consumi, si vede che tali informazioni non hanno stravolto il mercato, e questo è un fatto positivo se pensiamo che una buona parte del “made in Italy” si avvale di prodotti importati. Non produciamo, per esempio, abbastanza grano per sostenere i nostri pastifici; non alleviamo un numero sufficiente di suini per i nostri prelibati salumi; e anche i nostri innumerevoli prodotti da forno diverrebbero rari e costosi, se dovessero essere ottenuti solo dal nostro frumento. Senza voler tornare alla “battaglia del grano”, dobbiamo però rilevare come le potenzialità per migliorare la copertura dei fabbisogni ci sarebbero, sia in termini di superficie sia di resa unitaria.
La soppressione dell'aiuto supplementare al grano duro – una dozzina di anni fa – fece sparire oltre un terzo degli ettari, con una perdita concentrata proprio nelle aree più vocate. La modifica della Pac fece sparire le superfici a grano duro “virtuale”, che gli agricoltori fingevano di seminare (nei casi migliori, con lo spandiconcime) e che poi il contoterzista raccoglieva, se c'era rimasto qualcosa; ma fu anche l'inizio della nostra dipendenza dall'estero.
Qual è la vera origine?
La carenza di prodotto nazionale aggrava la già difficile bilancia commerciale, quando ci sono problemi qualitativi e sanitari: per questo bisogna, al di là dell'etichetta, consentire qualche deroga per poter definire “italiano” il prodotto ottenuto prevalentemente dalle nostre materie prime. Se, invece, ci si fissa sulle percentuali, la qualità – o meglio la sua immagine – diventa un attributo di nicchia e non di massa, rischiando di confinarla in un mercato ristretto; se questa marginalizzazione si realizza, è il fallimento dell'etichetta di origine, che perde la funzione di orientare i consumatori.
Nessuno riflette sul fatto che il consumatore è già abbastanza maturo per accettare una pasta fatta con grano italiano di qualità, tracciato e tracciabile: non sono 5 centesimi a fare la differenza.
Distribuire il valore lungo la filiera
Ma su una tonnellata di pasta quei pochi centesimi (al pacco da ½ kg) corrispondono a 100 euro: se anche solo la metà andasse a remunerare l'agricoltore, in pochi anni la produzione nazionale di paste alimentari sarebbe nuovamente coperta, per la quasi totalità, dal grano italiano. La filiera può fare molto, ma anche la produzione primaria deve cambiare profondamente, per ridurre i costi e tornare in utile: le analisi condotte da autorevoli esperti negli ultimi anni pongono il grano fra le colture a margine negativo, se si tiene conto del costo d'uso della terra.
Cambio di mentalità
Perché il cambiamento delle tecniche colturali è così lento e discontinuo? Il principale motivo di questa situazione risiede nella mentalità, ancora molto diffusa, che l'azienda agricola debba essere una realtà chiusa in sé stessa, incapace di aprirsi all'esterno. Una mentalità legata a un regime di prezzi controllati, se non addirittura amministrati, che poteva ammettere un modello di sviluppo fondato su questi principi:
- posizione centrale dell'agricoltura rispetto alle altre attività;
- estrema rigidità del mercato fondiario: la terra si compra, non si affitta;
- l'agricoltore deve fare tutto da sé, quindi possedere tutte le macchine;
- si rivolge al mercato solo per acquistare mezzi tecnici e vendere i suoi prodotti;
- il mercato è disposto a ritirare qualunque prodotto.
Le politiche agricole hanno sostenuto questo modello spendendo miliardi, con risultati piuttosto scarsi, se si prescinde dal miglioramento delle condizioni di vita nelle campagne; ma nel corso degli ultimi decenni la stessa cosa è avvenuta per tutti i cittadini, senza investire così tanto denaro. Probabilmente le risorse pubbliche sono state spese male, se è vero che altri Paesi membri della Ue sono balzati ai primi posti dell'Unione europea per il fatturato agricolo, mentre l'Italia ha perso diverse posizioni.
Investimenti sbagliati
D'altra parte, se l'obiettivo è stato quello di consentire all'agricoltore di dotarsi di un parco macchine completo, seppure rispetto a un modello agricolo tradizionale, non bisogna meravigliarsi se siamo scesi nella classifica; se è stato considerato più importante, per esempio, finanziare un trattore per l'aratura profonda piuttosto che un silo o un altro impianto per la prima lavorazione. Evidentemente questo modello di sviluppo rurale è stato ritenuto più appagante e ha drenato gran parte delle risorse che potevano essere destinate ad altre iniziative, come quelle legate all'aumento del valore delle produzioni agricole, vera chiave di volta dello sviluppo rurale, come ben sanno gli olandesi, che hanno saputo trarre profitto da Pac e Psr.
Basta guardare nei capannoni dei nostri agricoltori per verificare come molti di questi investimenti non fossero giustificati economicamente, soprattutto per le colture estensive. Già nella fascia di Sau oltre i 20 ha le aziende hanno acquistato nel tempo inutili trattori da aratura, inutili mietitrebbie, inutili seminatrici, costringendo i titolari a sobbarcarsi inutili mutui per coprire la differenza non finanziata dai Psr. Nelle nostre campagne il miglior “usato sicuro” è quello costituito dagli esemplari acquistati con il Psr che gli agricoltori, appena scaduto il vincolo, si affrettano a rivendere per recuperare almeno una parte delle perdite. Purtroppo, chi ha acquistato una linea completa per la lavorazione dei cereali, pur non avendo una superficie (e un fatturato) tali da giustificare l'investimento, sa che se vende ci rimette, mentre se si tiene le macchine ci rimette lo stesso, perché non gli conviene usarle.
Semina diretta e minima lavorazione
Parlando di grano – una coltura poco esigente in fatto di lavorazioni – il richiamo alla semina diretta o alla minima lavorazione è immediato, anche per i consistenti vantaggi in termini di riduzione dei costi di produzione. Chi è attrezzato per la lavorazione convenzionale (aratura profonda, ripassi vari e semina) ha poche alternative: o lascia ferme le sue macchine e si rivolge a un contoterzista, oppure continua a fare tutti i lavori recuperando qualcosa sulla fertilizzazione e la difesa, ma con risultati deludenti. La semina diretta ha conquistato un ruolo di primo piano nelle aree di coltivazione del frumento tenero e duro in regime convenzionale, perché permette un notevole risparmio di costi e consente di realizzare un utile seppure modesto.
Se si opera in regime biologico, la semina diretta richiede precauzioni, come la preventiva semina di una coltura di copertura, da devitalizzare prima della semina, che oltre a richiedere una certa organizzazione aziendale può costare parecchio. Dve è possibile, sembra preferibile sostituire l'aratura profonda con una superficiale (15-20 cm), capace di lasciare il terreno in condizioni di zollosità compatibili con una semplice erpicatura pre-semina, oppure per una semina combinata.
Macchine da semi sodo
Il mercato offre, infatti, accanto alle seminatrici da sodo “dure e pure”, anche macchine idonee a seminare su terreni con una preparazione meno accurata, come quella risultante da una minima lavorazione o da un'aratura superficiale. Se queste ultime sono state svolte con terreno in tempera. una seminatrice convenzionale ben regolata può dare buoni risultati, ma se rimangono zolle compatte, c'è il rischio concreto che il seme possa trovarsi al di sotto di queste, esaurendo la sua forza prima di emergere.
Bisogna osservare, dato il momento, che i cereali a semina autunnale riescono a coprire piccole irregolarità nella distribuzione del seme, grazie alla loro capacità di accestimento, consentendo l'impiego di seminatrici a righe anche con terreni poco preparati. Una preparazione approssimativa può essere causata anche da una lavorazione con terreno troppo umido, che si è in seguito rapidamente essiccato, determinando la formazione di zolle di notevoli dimensioni assai difficili da frantumare.
Le macchine da semi-sodo, in grado di operare su superfici più grossolane, sono spesso dotate di organi frantumatori o preparatori che precedono l'organo di deposizione del seme; se la zolla è troppo grossa o tenace, viene solo spostata, in modo che non possa interferire con la piantina. Queste seminatrici consentono di operare direttamente, se il terreno è abbastanza soffice, oppure dopo una minima lavorazione, come un'estirpatura o un'aratura superficiale (a vomere o a dischi). I preparatori combinati, con più ranghi di utensili capaci di livellare e affinare il terreno con una sola passata, consentono invece di utilizzare anche le normali seminatrici per lavorato. Fatto sta che le seminatrici per semi-sodo si stanno affermando rispetto alle altre, almeno tra le imprese agromeccaniche, proprio per la loro polivalenza d’impiego, potendo sostituire sia la seminatrice convenzionale sia quella da sodo (in condizioni favorevoli).
Si conferma inoltre la tendenza all'aumento della larghezza di lavoro, per ridurre i tempi di semina e l'incidenza percentuale della superficie calpestata (sempre meno, in virtù delle gomme a bassa pressione unitaria) rispetto a quella lavorata. A titolo di esempio possiamo ricordare che per una macchina da 2,5 metri la fascia calpestata (trattrice da 50 kw con gomme da 420 mm) incide per circa il 33%; questa si riduce a meno del 18% per una seminatrice da 9 metri, nonostante la trattrice sia allestita con pneumatici da 800 mm.
Corsa contro... il tempo
La corsa alle dimensioni è tuttavia motivata soprattutto dall'incremento della produttività oraria, che permette di sfruttare al meglio le finestre temporali idonee alla semina. Nei terreni più tenaci, che guarda caso sono quelli più frequentemente investiti a grano, e in presenza di un clima siccitoso, conviene attendere le prime piogge autunnali, in modo da favorire l'emergenza della coltura e ridurre la competizione delle malerbe almeno in questa fase.
Tali eventi si verificano di solito quando l'anticiclone estivo ha ormai abbandonato il nostro territorio e cominciano a prendere il sopravvento le perturbazioni di origine atlantica: i tempi disponibili per la semina si riducono e bisogna sviluppare in poco tempo un'alta capacità di lavoro. Le macchine di grande capacità di lavoro, sempre più spesso associate alla guida automatica, hanno permesso di superare l'ostacolo della tempestività, al punto che un numero crescente di agricoltori si sta rivolgendo al contoterzismo anche quando disporrebbe di superfici tali da ammortizzare un moderno cantiere di semina.