I vari bonus fiscali degli anni passati, se hanno avuto il merito di aiutare a risollevare l'economia dopo la pesante batosta della pandemia e dei vari “blocchi” agli spostamenti, sono stati varati senza una preventiva, e oggettiva, valutazione sui possibili abusi. Abusi che hanno dominato le cronache, specialmente per il 110% che era parso fin da subito troppo vulnerabile rispetto alle truffe che poi si sono puntualmente verificate.
Ma, a quanto pare, pure il credito d'imposta 4.0 potrebbe essere stato utilizzato da contribuenti che non ne avevano diritto, se è vero in occasione dei primi controlli la maggiore preoccupazione dei verificatori era se l'azienda, e i beni acquistati, esistevano davvero. Come possono esserci state imprese fasulle, che hanno dichiarato di avere maturato un credito e lo abbiano poi ceduto a terzi compiacenti, che hanno indebitamente compensato imposte e contributi? Evidentemente sì, contando sulla sospensione (sempre causa pandemia) dell'attività di accertamento normalmente svolta dai funzionari dell'amministrazione finanziaria e sulle difficoltà di controllo del territorio: un fenomeno che ha portato al ridimensionamento di molti bonus fiscali.
A fine marzo, e precisamente il giorno 29, il governo ha dovuto varare un provvedimento urgente (il decreto-legge n. 39) che, fra le altre cose, subordina l'uso del credito d'imposta 4.0 a una serie di obblighi tali da consentire un minimo di tracciabilità degli investimenti fatti e da fare. In realtà qualcosa di simile era stato disposto anche dal governo precedente, tanto che il 6 ottobre 2021 il Ministero dello Sviluppo economico aveva emanato un decreto direttoriale secondo il quale chi decideva di fare investimenti 4.0, lo avrebbe dovuto comunicare al ministero. Ma in quel periodo, ancora dominato dall'emergenza sanitaria, imporre un obbligo del genere parve eccessivo, tanto che la comunicazione era solo facoltativa: inutile dire che ben pochi si presero la briga di compilare e spedire il modulo. Il Dl 39 stabilisce invece che la comunicazione preventiva degli investimenti che daranno luogo a un credito d'imposta (4.0, certo, ma c'è già in arrivo anche il 5.0!) deve essere fatta a partire dal 30 marzo, utilizzando un modello ministeriale che però non è ancora uscito. Fatto l'investimento, l'impresa deve poi presentare una nuova comunicazione in cui dichiara come verrà utilizzato il credito d'imposta e in quanti anni prevede di esaurirlo; il credito potrà pertanto essere utilizzato solo dopo avere inviato la comunicazione finale.
Coinvolti anche gli investimenti fatti prima del 30 marzo
Il decreto però cerca di mettere una pezza sul passato, e qui cominciano i guai: la comunicazione di completamento dell'investimento deve infatti essere inviata anche per gli investimenti fatti nel 2023 e fino all'entrata in vigore del decreto e cioè fino al 30 marzo 2024. Se il ministero avesse provveduto tempestivamente, non saremmo qui a parlarne: ma non avendolo fatto, i crediti d'imposta per gli investimenti effettuati a partire dal 1° gennaio 2023 non possono essere utilizzati in compensazione, come è già accaduto in occasione della scadenza del 16 aprile.
A complicare ulteriormente questo pasticcio ci si è messa, involontariamente, l'Agenzia delle Entrate, che con una circolare del 12 aprile ha tenuto a precisare i codici tributo relativi ai crediti “maturati” nel 2023 e 2024, spiegando che i relativi crediti non erano utilizzabili. Il decreto legge non parla di crediti “maturati” del 2023, bensì di investimenti “fatti” nel 2023: due cose ben diverse, perché un investimento fatto nel 2022 e connesso l'anno successivo è sì maturato nel 2023, ma può benissimo essere utilizzato perché la legge fa salvi gli acquisti fatti fino al 2022.
Inutile aggiungere che l'Agenzia delle entrate ha corretto il tiro, ma troppo tardi, quando ormai chi doveva fare i pagamenti del 16 aprile aveva già bloccato la compensazione col credito, fidandosi del solo codice tributo e della buona fede della circolare di qualche giorno prima.