Le calamità naturali determinate dal maltempo riescono a rubare la scena anche allo sport e alla politica, ma solo per poco: quando entrano in gioco i grandi temi, come il cambiamento climatico e il dibattito sulle cause, l’opinione pubblica si divide, le acque si placano, gli animi anche, e tutto tace fino al prossimo evento. Ma se scendiamo da satelliti e aeromobili e guardiamo alla realtà dal livello del suolo, scopriamo che basterebbero alcune semplici precauzioni per limitare i danni di eventi che non possiamo definire veramente eccezionali.
Già il fatto stesso che a ogni autunno si verificano precipitazioni intense, frane e smottamenti ci dovrebbe insegnare qualcosa: autunno e primavera sono i periodi più piovosi dell’area mediterranea e farsi trovare impreparati non può che aggravare le conseguenze. Che la colpa sia di una naturale evoluzione del clima oppure dell’effetto serra provocato dalle attività umane ha importanza solo per la programmazione a lungo termine: modificare il nostro stile di vita e ridurre l’impatto sull’ambiente e l’impiego di energie non rinnovabili sono passi importanti, ma per invertire la tendenza ci vorranno decenni.
Molte colpe poi sono legate a comportamenti insensati: dalle case costruite negli alvei fluviali, che periodicamente si allagano, ai corsi d’acqua naturali contenuti fra stretti muri di sostegno, con una sezione ridotta anche di oltre il 50% rispetto a quella originaria. Dove il corso d’acqua non è stato ristretto per “esigenze urbanistiche” ci ha pensato la natura, o meglio l’incuria: alvei come dense foreste, argini traforati dalle nutrie e coperti da vegetazione spontanea che non permette di verificarne lo stato di conservazione. Appena il fiume esonda, o rompe gli argini, ecco spuntare il magico aggettivo che accompagna ogni calamità: ma di naturale c’è solo la stupidità umana, che ci porta a soddisfare i nostri bisogni immediati senza pensare agli effetti futuri.
Erosione idrica, un fenomeno sottovalutato
La forza dell’acqua dipende da tanti fattori, a partire dalla quantità e dalla velocità che assume quando scende a valle; ma dipende anche dal contenuto di solidi che porta con sé, che ne aumentano il peso per unità di volume. Gran parte di queste sostanze minerali sono il prodotto dell’erosione, che può interessare sia le superfici naturali o, per meglio dire, non coltivate, sia quelle coltivate; fra queste, spiccano in primo luogo i terreni lavorati, specie se privi di copertura vegetale. Il ruolo della vegetazione e del suo apparato radicale nel trattenere le particelle solide e impedire che anche una ridotta quantità d’acqua possa provocare fenomeni di erosione significativi è ritenuto da sempre fondamentale; dove invece la copertura scarseggia, oppure le piante sono ancora poco sviluppate, l’effetto è assai minore.
L’ambiente forestale naturale è in grado di minimizzare l’erosione, anche per l’effetto protettivo determinato dai residui vegetali in via di decomposizione, ancor più che dalle foglie degli alberi; ma anche un prato stabile riesce a ridurre considerevolmente l’effetto battente della pioggia e quello dovuto allo scorrimento superficiale. Tuttavia, anche negli ambienti naturali un po’ di erosione ci sarà sempre, che va a sommarsi al dilavamento dei composti solubili; all’opposto, un suolo totalmente scoperto sarà facile preda dell’erosione, perché privo di sostanze colloidali capaci di legare fra di loro le particelle minerali.
Oltre alla copertura vegetale, quindi, ha grande influenza il tenore di sostanza organica del terreno, che lo protegge dall’azione meccanica (asportazione) e chimica (dilavamento). L’osservazione di un pendio omogeneo – stesso terreno ma coperture vegetali diverse – consente di apprezzare visivamente gli effetti di una pioggia intensa, specialmente se ci si attrezza con ombrello e stivali e si controlla durante l’evento piovoso. Si osserverà, per esempio, che anche una buona copertura non sempre è totalmente efficace, soprattutto nei punti dove si convergono rivoli consistenti; qui l’azione meccanica dell’acqua può creare danni notevoli anche con piante perenni. Spetta quindi a noi, in quell’ambiente semi-naturale (o semi-artificiale) che è il terreno agrario, prendere i provvedimenti più opportuni, dalla sistemazione superficiale (fossi di sgrondo) alla realizzazione di una copertura vegetale capace di resistere alle precipitazioni.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, alcune vecchie sistemazioni agrarie di collina hanno ancora un valore: i fossi permanenti riuscivano a resistere all’erosione grazie all’inerbimento, mentre l’andamento, quasi parallelo alle curve di livello, impediva all’acqua di raggiungere una velocità troppo elevata, capace di eroderne il fondo. L’apporto continuo di sostanza organica (letame) teneva il terreno in condizioni spesso migliori di quelle odierne; per contro la scarsa produttività di allora costringeva a seminare anche nei terreni più in pendenza, soggetti quindi ad importanti fenomeni erosivi. Per quanto l’abbandono dei campi meno favorevoli abbia ridotto la quantità di terreno asportato dagli agenti meteorologici, l’erosione rimane un nemico da combattere: in questo senso le tecniche di lavorazione conservativa possono essere d’aiuto, se applicate correttamente.
Agricoltura conservativa, la soluzione?
Bisogna innanzi tutto premettere che l’agronomia non è una scienza esatta e che le tecniche conservative possono aiutare a contenere l’erosione di particelle solide e il dilavamento degli elementi nutritivi, ma non possono fare miracoli e chi li promette non dice tutta la verità. Cosa significa conservativo? Il principio ispiratore è quello di incrementare il naturale processo di stabilizzazione del suolo, mantenendone la fertilità con il minimo apporto possibile di mezzi tecnici. Per questo, e solo per questo, l’agricoltura conservativa era stata qualificata con vari colori (blu o verde) per darle una connotazione ambientale; colori che si sono alquanto sbiaditi quando è emerso che la riduzione delle lavorazioni si fondava sull’impiego del più noto e discusso erbicida.
Ora prevale un approccio più equilibrato: restano fondamentali la riduzione delle lavorazioni e le attenzioni alla gestione dei residui colturali, pur senza arrivare alle posizioni estreme del passato. La sostanza organica, se si eccettuano le aree a più forte vocazione zootecnica che possono contare su un apporto costante di deiezioni animali (talvolta addirittura eccessivo), è il vero problema dell’agricoltura italiana, con una percentuale notevole di suoli a rischio desertificazione. I deserti, caldi o freddi che siano, sono infatti caratterizzati dalla scarsità di sostanze colloidali di origine organica, che legano fra di loro le particelle minerali: il terreno è più sensibile al contenuto di acqua (sempre troppa o troppo poca), è facilmente erodibile e assai poco fertile, in quanto gli elementi nutritivi vengono rapidamente dilavati dalle precipitazioni. Grazie ai colloidi organici contenuti nell’humus, il suolo in equilibrio diventa più stabile e meno sensibile al clima, oltre che facile da lavorare; le piante impiegano meno energia per estrarre l’acqua dal terreno e risentono meno della siccità.
Per arrivare a questo risultato, la sostanza organica deve decomporsi senza perdite di elementi nutritivi, in un contesto né troppo umido né troppo secco, e in presenza dei numerosi organismi che scompongono la cellulosa, l’amido, le proteine e i grassi di cui sono composti i residui vegetali. Negli ambienti più umidi questi processi sono più efficienti al di sopra della superficie del suolo: la semina su sodo è nata proprio nei paesi anglosassoni, dove il clima freddo e piovoso determina una perdita di sostanza organica se avviene fuori del contatto con l’aria (carbonizzazione). Nei climi mediterranei, dove le piogge si concentrano in brevi periodi intercalati ad altri di siccità, è invece preferibile che i residui vegetali siano protetti da uno strato di terreno, per evitare le perdite dovute a troppo rapida ossidazione.
In Italia, le condizioni ideali per la gestione a sodo sono limitate a ben poche regioni del quadrante settentrionale: Piemonte, Lombardia, Emilia occidentale e parte del Veneto e del Friuli, seppure con una certa variabilità locale; il versante adriatico offre condizioni diverse, che consigliano di non ripetere troppo spesso la semina diretta. Dove invece è consigliabile l’interramento dei residui, questo deve avvenire alla giusta profondità, da 15-20 a 30-35 centimetri, con il massimo nei climi più asciutti; in questo intervallo si realizzano infatti le migliori condizioni per il processo di umificazione della sostanza organica. Si tenga conto però che la distribuzione del residuo su 30 centimetri di terreno comporta un apporto molto elevato di biomassa, se si vuole elevare il contenuto di sostanza organica, che quando è al di sotto del 1,5% identifica già un suolo a rischio di desertificazione. In termini ponderali, su 25 cm di spessore, per ogni ettaro, il volume di terreno è di 2.500 metri cubi ed il peso di circa 4.200 tonnellate, di cui ben 63 t di sostanza organica; se vogliamo aumentare la percentuale di mezzo punto, per raggiungere un valore minimo, ce ne vogliono altre 21 t. Con 10 t/ha di sostanza secca (paglie o stocchi e radici), al netto delle perdite, ci vogliono almeno 3 anni; se si decide di integrare con un autotreno di compost o letame il processo è sicuramente più rapido, ma poi bisogna aprire il capitolo lavorazioni.
Macchine per lavorazioni conservative
A parte la semina diretta, che non crea alcun disturbo allo strato attivo del terreno, se si eccettua quella minima traccia aperta e richiusa per la deposizione del seme, le lavorazioni “conservative” sono quelle che favoriscono l’attività della microflora e della microfauna del suolo. L’aratura può avere controindicazioni legate all’inversione degli strati, se avviene su uno spessore troppo elevato: i microrganismi del terreno sono poco mobili e tendono a localizzarsi a determinati livelli, per cui un loro trasporto a distanze troppo elevate può limitarne l’azione. Tuttavia, in regime biologico l’aratura continua ad avere un ruolo decisivo per il controllo delle malerbe e di diversi parassiti che svernano alla superficie del suolo; il giusto compromesso può consistere in un’aratura leggera – non oltre i 25 centimetri di profondità – purché non eseguita annualmente. In alternativa l’aratro a disco può essere meno invasivo di quello a versoio, perché riduce la percentuale di terreno rivoltato rispetto a quello semplicemente rimescolato; inoltre, il disco ha la capacità di interrare meglio stocchi di grandi dimensioni, che con un’aratura leggera potrebbero rimanere in superficie o addirittura ostacolare l’azione dei corpi operatori.
Ancor minore è il disturbo arrecato dagli utensili che non rivoltano il terreno, ma si limitano alla sola fessurazione verticale e orizzontale; perché tuttavia questa abbia effetto anche a distanza dal corpo operatore, è necessario che il lavoro venga eseguito con terreno tendenzialmente secco. In tali condizioni gli agglomerati sono più rigidi e, operando a una velocità sufficiente (almeno 7-10 km/h, pari a 2-3 m/s), l’utensile determina una fessurazione longitudinale e trasversale dello strato lavorato che riduce la dimensione delle zolle favorendo sia l’interramento del residuo vegetale, sia l’aerazione del terreno. Con maggiore umidità, invece, il terreno si deforma plasticamente e i tagli sono solo quelli provocati dalla forma degli utensili: ne risulta un lavoro meno accurato e anche l’interramento della biomassa è meno intenso.
Poiché le condizioni di campo sono quelle ottimali solo in un limitato numero di casi, le macchine più efficaci per la minima lavorazione sono quelle che combinano elementi rigidi, come le ancore, con utensili a molla e dischi per l’affinamento del terreno. Rispetto ad altre macchine, hanno l’innegabile vantaggio della rapidità di esecuzione, che compensa in parte il maggior costo rispetto alla semina diretta; infatti, la presenza di utensili disposti su più ranghi consente di devitalizzare e contenere lo sviluppo delle malerbe. Le macchine a utensili azionati dalla presa di potenza sono meno consigliabili, perché l’effetto della lavorazione è troppo intensivo, pur essendo le migliori per interrare i residui, grazie all’effetto di trinciatura svolto dalle zappette. In questo settore, tuttavia, stanno assumendo grande importanza le macchine per la lavorazione a strisce (in inglese, strip tillage), che combinano la non lavorazione (nelle interfile) con un’azione più energica lungo la fila e per una larghezza di qualche centimetro. Le macchine di questo tipo rappresentano attualmente l’unica vera alternativa alla semina diretta, pur non condividendone gli svantaggi: il terreno viene lasciato tal quale, coperto dai residui vegetali; questi non interferiscono con la semina, che si svolge su una sottile striscia accuratamente lavorata in superficie, grazie ad utensili che sminuzzano la biomassa presente; se il terreno è costipato, la minima lavorazione svolta sulla fila consente una perfetta deposizione del seme alla giusta profondità e la sua ricopertura.
L’ALTRA FACCIA DELL’EROSIONE
Anche quest’anno si sono registrati, nelle aree collinari e montane, innumerevoli smottamenti e slavine su terreni appena lavorati o seminati, dovuti a scivolamento dell’intero strato interessato dalle lavorazioni. La causa primaria è verosimilmente dovuta alla suola di lavorazione, creata dalla successione di passaggi sempre alla stessa profondità, magari con la ruota nel solco. Le aziende agricole meccanizzate in proprio sono quelle che rischiano di più, perché l’impiego ripetuto nel tempo delle stesse macchine amplifica il fenomeno; per chi si rivolge al contoterzista ciò è meno probabile, oltre al fatto che le lavorazioni si eseguono quasi sempre fuori solco.
La suola, che si può formare anche con altre attrezzature, in primo luogo con le zappatrici allestite con utensili a “L, determina la creazione di uno strato compatto che si oppone alla percolazione dell’acqua di pioggia. Notare che gli strati più superficiali, anche per merito della lavorazione, tendono ad assorbire l’acqua con grande facilità, ma solo fino alla suola, che diventa il piano di scorrimento per il terreno soprastante. Ma perché lo strato si stacchi bisogna vincere le forze di aggregazione del terreno, sia grazie al maggior peso dovuto all’acqua assorbita, sia per effetto dell’erosione localizzata; come una lastra di vetro si spezza quando viene incisa, così basta un rivolo più intenso ad aprire il taglio a monte. Il fenomeno si verifica sui terreni con forte pendenza e con elevato contenuto di argilla, sottoposti a lavorazione intensiva a cui hanno fatto seguito precipitazioni prolungate, come quelle autunnali. In questi contesti bisogna pensare a difendere il suolo dall’eccessivo assorbimento, magari con una coltura di copertura; se ciò non fosse possibile, ridurre l’intensità della lavorazione, sostituendo l’aratura con una ripuntatura, e l’aratura con una ripuntatura, e seminare in anticipo per sfruttare la copertura della coltura.