«Una giornata rivoluzionaria per i biotecnologi vegetali che si occupano di miglioramento genetico delle piante», la certificazione «di un nuovo patto tra politica e scienza», la concretizzazione «di un impegno preso per promuovere un’agricoltura sostenibile, sana, rispettosa dell’ambiente». Parole pesanti quelle che ricercatori e politici – rispettivamente Vittoria Brambilla, docente di botanica generale all’Università statale di Milano, Alessandro Beduschi, assessore lombardo all’agricoltura, Patrizio La Pietra, sottosegretario del Masaf – spendono per commentare il ritorno alla sperimentazione in campo di piante selezionate in laboratorio.
Nello specifico, c’è una nuova varietà di riso, famiglia Arborio, resistente al brusone, la principale malattia fungina di questo cereale. Malattia in grado, nelle annate più favorevoli alla sua diffusione, di dimezzare la produzione, arrecando gravissimi danni ai risicoltori.
Il riso in questione è una pianta sottoposta a manipolazione genetica nell’ambito del progetto “Ris8imo”, capeggiato dall’Università statale di Milano, dipartimento di Scienze agrarie e ambientali; coordinatrice del progetto appunto Vittoria Brambilla.
Un Ogm non Ogm
Parlare di manipolazione genetica fa immediatamente pensare agli Ogm, ma non è di Ogm in senso classico che stiamo parlando: il metodo con cui è stato selezionato il riso è infatti la Tea, ovvero Tecnica di Evoluzione Assistita. Che interviene sul Dna della pianta ma che, a differenza della modificazione genetica, non impiega materiale proveniente da specie diverse.
Tea, detta in parole molto semplici, interviene su particolari geni, portatori di caratteri che si intendono replicare nella pianta oggetto di selezione, utilizzando materiale proveniente da altre piante della stessa specie (in questo caso, altre piante di riso). Si parla quindi di cisgenesi e non di transgenesi, che consiste invece nell’introduzione di materiale genetico extra-specie, come avviene per quelli che comunemente chiamiamo Ogm.
La Tea è stata sviluppata circa un decennio fa e finora è stata applicata su pomodori, uva e melanzane, per ottenere rispettivamente resistenza ai parassiti e assenza di semi nei frutti. Nessuna di queste piante è stata però testata in campo aperto. È accaduto con il progetto milanese, in cui la pianta è stata modificata inattivando tre geni che darebbero suscettibilità al brusone. In questo modo, i ricercatori sono convinti di aver ottenuto una pianta appartenente al gruppo Arborio ma capace di resistere agli attacchi del fungo.
Come naturale, sono state sviluppate diverse linee e quella messa in campo il 13 maggio scorso è soltanto una di esse. Se i risultati non saranno quelli sperati, il prossimo anno si procederà con un test su una diversa linea.
In caso di esito positivo le prove saranno ripetute, in forma estesa e in ambienti diversi, nel 2025. Leggi permettendo, ovviamente. Il test avviato lo scorso 13 maggio è stato infatti possibile grazie a un emendamento inserito, in modo forse un po’ improprio ma efficace, nel decreto Siccità del maggio 2023 e valido per tutto il 2024, con rassicurazioni circa una probabile proroga per il 2025.
Percorso rapido (per la scienza)
«È bene ricordare, però, che stiamo parlando di sperimentazione e di ricerca scientifica pura», precisa Vittoria Brambilla. Come dire che la commercializzazione, in ogni caso, è di là da venire. «Per una coltivazione a fini commerciali occorre una legge apposita: finora abbiamo ottenuto una deroga che riguarda la sperimentazione», conferma la ricercatrice.
Ma se i tempi della burocrazia sono ignoti, quelli della scienza sarebbero celeri: «Grazie alla particolare tecnica che abbiamo utilizzato, le piante in campo sono già linee omozigote stabili, in quanto il genoma della pianta è rimasto identico, a parte le modifiche che abbiamo praticato. Se non vi fossero vincoli normativi sarebbe sufficiente moltiplicare il seme per poterlo coltivare». Un processo fattibile, indicativamente, in un paio di campagne.
Gli ostacoli sono insomma burocratico-legislativi. Gli stessi che hanno impedito, negli ultimi 20 anni, di fare sperimentazione in campo con organismi geneticamente modificati. Infatti la deroga ottenuta riguarda la legge sugli Ogm, anche se la Tea non è, intrinsecamente, una modificazione transgenica. «Siamo molto felici – taglia corto Vittoria Brambilla – del ritorno ai test in campo dopo un periodo così lungo. Molti laboratori, in Italia, stanno lavorando sui Tea. Una richiesta di deroga simile alla nostra è già stata presentata dal Crea per un pomodoro resistente alle orobanche, ma so che esistono progetti sulla vite e su molte altre piante. Il nostro stesso team, pur lavorando soltanto su riso e parzialmente su grano, ha diverse soluzioni già coltivate nei fitotroni (box speciali per la coltivazione in vitro, ndr) e pronte per la fase finale di sperimentazione».
Tanta attenzione da parte della ricerca è dovuta essenzialmente alle potenzialità del metodo Tea: intervenendo su specifici geni è possibile ottenere piante resistenti a patologie di vario genere, ma anche agli stress ambientali. Soluzioni potenzialmente rivoluzionarie che sarebbe un delitto non esplorare. «Le varietà Tea – spiega ancora la ricercatrice milanese – sono indistinguibili da quelle normali, in quanto realizziamo mutazioni che potrebbero avvenire anche spontaneamente, con una selezione di tipo tradizionale. La differenza principale sta nel fatto che noi andiamo a intervenire direttamente su un gene, mentre il selezionatore incrocia piante diverse sperando di ottenere il risultato desiderato. Mentre il suo lavoro richiede anni di pratica e un occhio esperto, il nostro è impossibile senza una conoscenza approfondita dei geni e delle loro funzioni».
Un settore al bivio
La possibilità di impiegare una varietà di riso da interno resistente al brusone darebbe ossigeno a una risicoltura italiana schiacciata tra importazioni extra-Ue in costante ascesa e difficoltà legate al cambiamento climatico, al punto che le voci più allarmiste ne mettono in discussione la sopravvivenza.
Concentrata in un territorio relativamente ristretto – Vercelli, Novara, Pavia, Milano, Verona, Ferrara, Sardegna – la risaia nazionale ha visto costantemente diminuire la propria consistenza negli anni. Passando, per esempio, da 218mila a 210mila ettari nel biennio 2022-2023. Principalmente, a causa della siccità che ha ostacolato la gestione idrica delle risaie. Una crisi che certamente non riguarda questo inizio di primavera, quando anzi si è vissuto il problema opposto, la difficoltà di seminare a causa delle costanti piogge.
Come potrebbero influire queste ultime sulle scelte degli agricoltori? Difficile dirlo, in attesa di conoscere i dati ufficiali del sondaggio sulle semine, realizzato come ogni anno dall’Ente Risi. Tuttavia, è opinione diffusa che le superfici totali dovrebbero tornare ai livelli del 2022, ovvero vicine ai 220mila ettari. In parte per le scelte degli agricoltori, in parte perché le piogge potrebbero impedire la semina di colture alternative, come mais o soia, spingendo chi vive in una zona vocata a orientarsi, in extremis, sul riso, seminabile anche in acqua.
La tipologia di semina – in sommersione o in asciutta – è un altro tema assai dibattuto, in questi anni, e parimenti potrebbe essere influenzata dalle precipitazioni eccezionali di aprile-maggio, favorendo la semina in acqua – più praticata in Piemonte – rispetto a quella in asciutta, utilizzata soprattutto dai risicoltori lombardi. In questi anni, le due tecniche hanno raggiunto più o meno la parità, in quanto a superficie, e sarà dunque interessante vedere se il meteo sposterà o meno questo discusso equilibrio.
Si attende la ripresa del dialogo comunitario
La notizia della ripresa dei test in campo, dopo 20 anni esatti di stop, sta galvanizzando non soltanto il mondo della ricerca, ma anche quello dei rappresentanti di categoria e delle associazioni legate all’agricoltura. «L’agroalimentare italiano aspettava da tempo questo momento. L’avvio di questo progetto rappresenta il simbolo del rilancio della ricerca pubblica in campo, rimasta per troppo tempo ferma nonostante lo straordinario know how dei ricercatori italiani», ha detto per esempio Clara Fossato, portavoce del coordinamento Cibo per la Mente, che raggruppa 18 sigle della filiera agroalimentare, tra cui rappresentanti dell’industria chimica, sementiera, della fertilizzazione, oltre a Copagri, Cia e Confagricoltura.
«Dopo le elezioni europee di inizio giugno ripartirà il dialogo comunitario che dovrà finalmente concedere ai nostri agricoltori il libero accesso alle Tea. Nel frattempo, il nostro auspicio è che il mondo della ricerca possa seguire l’iniziativa di Vittoria Brambilla e del suo team ed estendere al più presto la sperimentazione a nuove colture», ha concluso la portavoce.