
L’attuale situazione critica della coltura del mais nel nostro paese impone la necessità di innovare i sistemi maidicoli e questa innovazione può seguire direzioni diverse. Una di queste è l’efficienza e per aumentarla occorre utilizzare bene la radiazione solare, posizionando correttamente il ciclo colturale del mais, in modo che la massima radiazione coincida con il momento di massima fogliosità del mais. In questo senso il ruolo chiave lo gioca l’anticipo della fioritura, ottenibile con l’anticipo di semina per quanto possibile, ma soprattutto con le tecniche agronomiche che potenziano il vigore di partenza.
Per intercettare meglio quella che è la radiazione solare, però, si può ricorrere anche a un aumento della densità colturale, con una maggior chioma fogliare che intercetta la luce. L’evoluzione degli ibridi di mais nell’ultimo secolo non ha riguardato tanto la potenzialità produttiva della singola pianta, quanto la capacità di adattarsi ad alti investimenti, che è tipica degli ibridi moderni e che oggi ci consente di seminare 8 e più piante per metro quadrato.
Per andare oltre questo livello, da qualche anno vengono proposti degli ibridi commerciali di mais a taglia ridotta (short o smart corn in inglese) ottenuti con tecniche di miglioramento genetico convenzionale (incrocio), ma che in futuro potrebbero essere ottenuti con altri approcci biotecnologici. Potendoli seminare a densità molto alte (da 13-14 fino a 16 piante/mq, di fatto il doppio rispetto a un ibrido convenzionale) e in combinazione con la giusta agrotecnica, questi ibridi rappresentano un potenziale molto importante.
Due anni di sperimentazione
Su questo materiale genetico ha lavorato negli ultimi due anni l’Università di Torino, i cui primi risultati sono stati presentati da Massimo Blandino, del Disafa dell’ateneo torinese, in occasione della tradizionale Giornata del mais di Bergamo dello scorso gennaio.
«Abbiamo messo a confronto tre sistemi colturali diversi – ha spiegato Blandino –: un sistema convenzionale (mais a taglia alta, seminato con una densità opportuna) e due sistemi a taglia ridotta con un investimento di 13 piante/mq: uno con interfila standard a 75 cm e uno con interfila stretta a 50 cm. Il tutto considerando due tipologie di suolo (sciolto e a medio impasto) e quattro diversi dosi di azoto applicate come urea in copertura.
Dal punto di vista dello sviluppo della pianta, come già riferito in alcuni lavori condotti soprattutto in Nord America, abbiamo registrato una riduzione dell’altezza della pianta complessiva media di 60 cm (pari a circa il 20%), ma soprattutto una maggior stabilità della pianta data da un portamento della spiga che si riduce di 35 cm». Nonostante le differenze nello sviluppo in altezza della pianta, la dimensione dello stocco è rimasta sostanzialmente la stessa, garanzia da questo punto di vista di una tenuta superiore dello stocco stesso. Questo aiuta molto in occasione di eventi estremi come temporali forti e grandinate, perché gli ibridi a taglia ridotta sono risultati meno colpiti rispetto ai convenzionali».
In sostanza, la coltivazione di un mais a densità più fitta comporta una maggior copertura del suolo e una maggiore attività fotosintetica. Ma come si traduce tutto questo in termini produttivi? «Nell’areale con terreno sciolto – ha continuato Blandino – abbiamo registrato un incremento di produzione del 26% passando dal sistema standard a quello stretto, incremento che scende all’11% nel caso dei terreni di medio impasto. Ma è interessante ragionare su quelle che sono le componenti produttive, quindi di come si è creato questo vantaggio. Il vantaggio è ovviamente legato al numero di piante e soprattutto al numero di spighe a metro quadro. La percentuale di piante senza spighe in questi mais è sempre risultata molto bassa e la qualità della semina è risultata molto buona in particolare nel sistema con l’interfila a 50 cm (grazie anche alla distanza sulla fila di 15 cm).
Dal punto di vista della dimensione delle spighe, seminando fitto si è inevitabilmente ottenuta una riduzione rispetto al sistema convenzionale, compensata però dal maggior numero di cariossidi/mq, e lo stesso si è verificato dal punto di vista del peso dei mille semi, per cui occorre grande attenzione nella nutrizione e nel garantire un buon riempimento di questi mais».
Azoto
Andando a seminare tante piante a metro quadro, le esigenze nutrizionali delle piante ovviamente crescono. «I sistemi a mais a molto fitto – ha riferito Blandino – hanno sempre evidenziato un contenuto di clorofilla più basso rispetto al sistema convenzionale a parità di dosi di azoto, ma soprattutto nel 2024 in presenza di una minor dotazione dei terreni la crescita dei sistemi smart corn è sempre stata lineare, a significare che reagiscono alla disponibilità di azoto in maniera superiore rispetto al mais convenzionale medio intensivo. Sul fronte produttivo a tutti i dosaggi di azoto corrisponde una produzione del mais a taglia ridotta superiore rispetto a quello convenzionale, con l’eccezione della situazione a zero azoto dove la carenza di azoto ovviamente ne ha limitato le performance. In particolare, i sistemi di mais a taglia ridotta sono risultati migliori dal punto di vista dell’efficienza dell’uso dell’azoto a parità di dose apportata».

Dal punto di vista dello sviluppo della pianta gli ibridi a taglia ridotta sono più bassi di circa il 20% rispetto ai convenzionali, con un’inserzione della spiga di 35 centimetri più bassa (Foto Università di Torino)
«I sistemi colturali basati sulla coltivazione di mais a taglia ridotta indubbiamente possono essere uno strumento a disposizione per l’adattamento al cambiamento climatico – ha proseguito Blandino – perché la maggior stabilità della pianta può minimizzare i danni da colpi di vento e grandinate, che saranno sempre più frequenti. Dall’altra parte l’aumento produttivo, di fatto con un uso potenzialmente più efficiente delle risorse, ci dice che è una strada verso quello che è il paradigma dell’intensificazione sostenibile, per riuscire a migliorare le produzioni senza necessariamente aumentare quelli che possono essere gli impatti dell’agricoltura.
Di sicuro questa esperienza evidenzia come le innovazioni non sono sempre solo a compartimenti stagni, cioè non è solo la nuova genetica che fornisce un elemento utile, ma deve essere inserita con un adattamento ragionato e attento di quella che è la migliore agrotecnica, in modo da esaltare le potenzialità dei nuovi genotipi.
Dobbiamo andare avanti dal punto di vista dell’ottenimento di nuovi ibridi, per arrivare a migliorare la competitività e la capacità di sopportare la competizione intraspecifica, così come non dobbiamo trascurare il corretto ciclo colturale e la destinazione d’uso.
Dall’altra parte in sinergia bisogna ottimizzare l’agrotecnica con le potenzialità della nuova genetica, puntando per questi mais su una partenza veloce per sfruttare meglio la radiazione solare, gestendo attentamente la nutrizione per mantenere le potenzialità che un maggior numero di piante a metro quadro ci offre e continuando a curare la difesa per garantire lo stay green, la stabilità e la qualità della coltura, che ovviamente in queste condizioni di maggior densità deve essere valutata con grande attenzione, in particolare per quanto riguarda la i potenziali rischi sanitari.
Infine – ha concluso Blandino – questi nuovi sistemi potenziano le innovazioni da un punto di vista meccanico e tecnologico: sicuramente seminare mais a 13-14 piante/mq richiede semine di altissima precisione, assieme a una conoscenza sempre più dettagliata degli appezzamenti e al ricorso a sistemi che guidino meglio gli interventi di nutrizione, per far sì che le densità e gli investimenti che andiamo a mettere in campo siano bilanciati correttamente con quelle che sono le reali potenzialità dei terreni. Solo con questa grande sinergia si potranno ridisegnare correttamente i sistemi colturali per andare a vincere le tante e diverse sfide che il settore maidicolo si appresta ad affrontare».