Quando si parla di sostenibilità di una qualunque attività economica, si è sempre più portati a pensare alla riduzione dell’impatto ambientale che essa determina. Un modo di pensare, questo, che testimonia più di ogni altra considerazione quanto siano entrate nella mentalità comune le preoccupazioni per l’ambiente e per il clima.
Ma proprio perché si tratta di attività economiche, la prima preoccupazione dovrebbe essere quella della redditività, che sta alla base dell’esistenza di una qualunque impresa. Perché si dovrebbe fare impresa, se non per guadagnarci? Il concetto di guadagno viene spesso inteso in modo soggettivo, nel senso che ognuno ha la sua misura, scarsa, minima o ottimale; ma il fatto che nessuno arrivi mai a giudicarlo eccessivo o esagerato (nei rarissimi casi in cui ciò accade) ci dice che il giudizio soggettivo non è corretto e che bisogna piuttosto attenersi a criteri di valutazione uguali per tutti. Un profitto giusto, per la parte che interessa il solo lavoro, è quello che ripaga la mano d’opera nella stessa misura di un lavoratore dipendente; per il capitale, è il reddito analogo a quello che si può ricavare da un altro investimento che abbia la medesima percentuale di rischio. Quindi, nessun riferimento a titoli pubblici e buoni postali, i cui rendimenti sono estremamente bassi. Ma anche se prendessimo questi valori, nella piena coscienza di commettere un grave errore, è probabile che per qualche attività non si riescano a chiudere i conti, a meno di non attribuire al costo del lavoro un valore arbitrariamente basso. Un evento sempre più frequente in agricoltura, specialmente per le colture estensive, che risentono di più delle fluttuazioni dei prezzi di mercato. Il massimo si verifica con le cosiddette commodities, prodotti agricoli a lunga conservazione e con un buon rapporto fra peso e volume, per i quali il costo del trasporto è a volte trascurabile rispetto al valore di mercato.
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