Fra le macchine da raccolta, la falciatrinciacaricatrice continua ad essere una fra le più costose, per quanto superata da qualche mietitrebbia di alta gamma e dalle raccoglitrici da barbabietole, ormai confinate ai soli distretti dove esiste ancora la filiera bieticolo-saccarifera.
La contrazione delle superfici coltivate a cereali da insilamento, che aveva seguito la parabola discendente della zootecnia, si è provvidenzialmente arrestata una dozzina d’anni fa grazie agli impianti per la produzione di biogas, un settore che può contare su una marginalità soddisfacente grazie ai contributi sulle produzioni energetiche. Ma ormai è acqua passata: dopo la crescita a doppia cifra dei primi anni Dieci, il mercato si è rapidamente saturato e oggi siamo tornati alla stabilità, appena ravvivata dalle sostituzioni e dal credito d’imposta 4.0, un potente stimolo all’innovazione. Con il 50% di sconti fiscali e previdenziali, anche il mezzo milioncino necessario per rinnovare il parco macchine aziendale diventa più accessibile e può convincere a sostituire la trincia ormai datata e, soprattutto, bisognosa di cure urgenti.
L’elevato prezzo di vendita delle macchine da raccolta è dovuto al ridotto numero di esemplari prodotti: gli stessi 500 hp di potenza, se costano 100 in un autocarro pesante, costruito in decine di migliaia di esemplari, arrivano a costarne fino a 300 o 400 in una macchina agricola. Non stiamo parlando di beni di consumo, ma di mezzi professionali destinati ad un impiego intenso e prolungato nel tempo, dove le 10.000 ore di lavoro non sono più un traguardo da record.
È chiaro che se dobbiamo ripartire i 50 milioni investiti per sviluppare un nuovo modello su 10.000 esemplari, il costo unitario aumenta di appena 5.000 euro, pari a qualche punto percentuale; ma se i “pezzi” realizzati fossero solo 500, l’incidenza della progettazione e sperimentazione sale a 100.000 euro, senza contare il costo di produzione e il post vendita.
Da 400mila a 500mila euro
Nel prezzo di acquisto della macchina, una quota variabile va a coprire l’assistenza, in garanzia e non: oltre a quelle programmabili (come le manutenzioni annuali), bisogna essere pronti alle riparazioni estemporanee, talvolta con officine mobili. Come per altre macchine da raccolta, l’investimento oscilla intorno ai 300.000 euro, ai quali bisogna aggiungere le testate di raccolta: se per il biogas può bastare una sola piattaforma polivalente (altri 100.000, come minimo), per l’impiego zootecnico ce ne vuole una per raccogliere le sole pannocchie, oltre a un pick-up per erbai a taglia bassa. Nella maggior parte dei casi l’investimento va da 400.000 a 500.000 euro (se non di più), una cifra di tutto rispetto che richiede un’analisi precisa dei fabbisogni e delle possibili soluzioni.
I bilanci aziendali mostrano che solo una ristretta schiera di contoterzisti professionali ha i conti in ordine, nel senso che la trinciatura copre i costi di esercizio e consente di ritrarre un utile che, per quanto esiguo rispetto ai valori investiti, mantiene l’azienda in equilibrio. A volte questa condizione si realizza solo perché la trincia è stata interamente pagata e permette di completare l’accantonamento a suo tempo previsto per la sua sostituzione, ma non il valore oggi necessario per acquistare una macchina di categoria paragonabile. In tal caso l’incentivo statale – per esempio, il credito d’imposta 4.0 – aiuta a superare l’ostacolo e a mantenere lo stesso livello tecnologico; bisogna però stare attenti perché in assenza di condizioni favorevoli la sostituzione appare problematica anche con un mezzo di categoria inferiore.
Evoluzione potenze e prestazioni
Qual è il significato di categoria inferiore, similare o superiore? Il progresso tecnico porta a un’evoluzione delle potenze e delle prestazioni delle macchine e le caratteristiche dei modelli “base” e “top” tendono a progredire ogni anno: ciò che pochi anni fa era considerato nella media, oggi può avere perso posti in classifica. Quando si parla di categoria “paragonabile” ci si vuole riferire proprio a questo: se appena 15 anni fa la trincia di medio livello arrivava a circa 400 cavalli, un valore che oggi viene abbondantemente superato anche dalle macchine più piccole. È interessante osservare che la falciatrinciacaricatrice di quell’epoca aveva un valore a nuovo di circa 200.000 euro: dopo 15 anni ce ne vogliono quasi il doppio, per acquistare una macchina della stessa classe con le dotazioni che oggi chiede il mercato. Benché la trincia sia fra le macchine con la maggiore “tenuta” dell’usato, le quote di ammortamento accantonate su tale valore non consentono di pagare una macchina di livello “entry”, neppure considerando la vendita di quella vecchia.
Se non ci fosse stato il provvidenziale intervento legislativo che ha introdotto il credito d’imposta, la sostituzione di una trincia ormai obsoleta sarebbe problematica e costringerebbe gli agromeccanici a un pesante adeguamento dei prezzi.
Dal ragionamento fatto appare chiaro che ogni agevolazione di cui usufruiscono le imprese di servizi – nel nostro caso, quelle agromeccaniche – viene trasferita pari pari al cliente finale e quindi l’aiuto, la sovvenzione o lo sconto entra immediatamente nel sistema. Quindi non ha senso, per esempio, escludere i contoterzisti dai fondi per lo sviluppo rurale o stabiliti da altre norme (come il Pnrr), significa sottrarre il beneficio non al destinatario diretto, che è solo un semplice intermediario, ma a quello indiretto, e cioè alle aziende agricole. Se oggi un agromeccanico può fornire – all’agricoltore o all’allevatore – la piena tracciabilità del trinciato, secondo i parametri misurati da una macchina acquistata grazie a queste agevolazioni, a trarne vantaggio saranno il cliente e il consumatore che berrà quel latte o mangerà quella carne.
La tentazione del credito 4.0
Resta tuttavia da definire la taglia dell’investimento, perché se è vero che lo Stato ci riconosce oggi un credito d’imposta fino al 50% per le macchine (praticamente tutte) che potrebbero rispettare i requisiti 4.0, approfittare dell’occasione per cambiare categoria può rivelarsi un errore. Chi non si entusiasmerebbe all’idea di guidare una trincia di alta gamma, con la colonna sonora di un poderoso 8 o 12 cilindri? Se le scelte emotive possono costare care su un piccolo trattore, per una trincia gli inconvenienti crescono in misura proporzionale. Pensiamo, per semplificare, a una trincia da 500 hp che lavora per 450 ore/anno con resa effettiva di 1,1 ha/ora, su circa 500 ettari complessivi; in caso di sostituzione con una macchina di potenza superiore (800 hp, resa reale 1,5 ha), il grado di utilizzazione annua scende a sole 330 ore. Se questo avvantaggia i clienti, che possono contare su una maggiore tempestività di intervento, il costo orario aumenta, come si può facilmente verificare dalla tab. 1. Questo si rifletterà sul prezzo per ettaro, che viene pesantemente influenzato non solo dal tempo di lavoro, ma soprattutto da quelli di sosta: se la catena logistica non gira perfettamente, la trincia più potente rischia di trascorrere più tempo in attesa dei mezzi di trasporto. La maggiore produttività – in termini di tonnellate/ora – comporta infatti tempi di rientro sotto macchina assai più rapidi, che possono richiedere un trattore e un rimorchio in più. D’altra parte, non conviene che sia la trincia ad aspettare, considerato che il costo orario di un mezzo di trasporto è dell’ordine della metà di quello della macchina.
Quindi, attenzione a non sovradimensionare i cantieri: benché la trincia più potente abbia un costo e un consumo non esattamente proporzionali alla maggiore potenza sviluppata, il rischio di lavorare di meno e di dover riorganizzare la catena a valle (compreso il cantiere di insilamento) sconsigliano di acquistare un mezzo troppo diverso da quello da sostituire. Non va inoltre dimenticato che, a parità di motore, è preferibile scegliere quello con una taratura intermedia, perché è destinato a durare di più e consumare di meno; inoltre, il prezzo di listino può variare parecchio per pochi cavalli in più, con effetti trascurabili sulla capacità di lavoro.
Attenzione al gasolio
Capita spesso, in sede di rendicontazione del gasolio agevolato, di imbattersi in qualche agricoltore che acquista il cereale “in piedi” e su questo fa eseguire la trinciatura al contoterzista.
Questi è del tutto ignaro di chi sia il conduttore del terreno: Tizio mi chiama, mi dice che devo trinciare il mais, che sa ne so se su quel terreno Tizio ha un titolo legittimo di conduzione?
In effetti il regolamento in vigore – D.M. n. 454/2001 – stabilisce che l’impresa agromeccanica deve limitarsi a verificare due cose:
- che il lavoro sia chiaramente agricolo;
- che il cliente sia iscritto al registro delle imprese per l’attività agricola.
Tuttavia, in sede di controllo da parte dell’ente delegato (o della stessa Agenzia delle Dogane) ci possono essere contestazioni nel caso in cui l’agricoltore, proprietario del cereale da trinciare, non abbia iscritto a suo nome il terreno nell’anagrafe delle aziende agricole.
Si tratta di un rischio reale e diffuso, che le regioni sanzionano senza pietà: benché vi siano motivi per ritenere che a certe condizioni sia possibile la rendicontazione dei consumi, la linea adottata dagli enti è di contestare la violazione delle norme in materia di carburanti, che può assumere riflessi di natura penale.
È quindi importante che il contoterzista, in fase di contrattazione, specifichi (meglio se per iscritto) che sui terreni dove il prodotto è stato acquistato “in piedi”, deve essere impiegato gasolio per autotrazione e applicata una maggiorazione pari alla differenza di prezzo (48 centesimi al litro).
Da notare che sia il terzista, sia il cliente, sono entrambi vittime di un meccanismo perverso, i cui veri responsabili sono coloro che vendono il prodotto “in piedi”; questi, infatti, percepiscono aiuti Pac che potrebbero non essere dovuti, oltre a dichiarare di coltivare un terreno fino alla fine del ciclo colturale, anche se ciò non è vero. E comunque l’ingiustizia rimane: non sarebbe più semplice consentire, per legge, di poter fare una cosa che di fatto non danneggia nessuno?