Perché si lavora il terreno? Perché si è sempre fatto così, una risposta che esprime un sentimento timoroso verso l’innovazione e che trova ancora sostegno fra gli agricoltori: aratura, rottura delle zolle, fresatura e ripetute erpicature non sono più sostenibili per le colture estensive. Non è casuale che le tecniche non convenzionali per la gestione del terreno siano applicate dagli agricoltori più dinamici e disponibili a integrare le superfici aziendali con i fondi in affitto, affiancando la conduzione dei terreni ad altre attività (contoterzismo, energie rinnovabili ecc.).
Da qualche anno oltre metà dei terreni coltivabili è condotta in affitto, che resta l’unica alternativa all’acquisto: gli incentivi al fotovoltaico “agricolo” hanno fatto schizzare i listini immobiliari verso l’alto, per la forte domanda creata da investitori di provenienza extra agricola. Un fenomeno più volte stigmatizzato dai movimenti di protesta, che rilevano l’incongruenza fra il sostegno al “made in Italy” e i provvedimenti sulle energie rinnovabili. D’altro canto, i cantieri che consumano 150-200 litri per ettaro, per la sola preparazione del letto di semina, sono stati sconfitti dal mercato: aggiungendo gli altri mezzi tecnici, l’azienda lavorerebbe comunque in perdita anche se avesse tutti i terreni in proprietà.
Non si può più fare agricoltura come la si faceva un tempo o come qualcuno, con patetiche velleità, spera di poter fare ancora oggi, anche se le fiere agricole sembrano mostrarci il contrario, con attrezzature ultramoderne esposte accanto a cantieri tradizionali e tecnicamente obsoleti. È pur vero che in Asia si ara ancora la terra con il monovomere trainato dal trattore da 50 cavalli, privo di sollevatore: ma la competitività dei loro prodotti agricoli nasce da pesanti sacrifici sociali e ambientali, non da una tecnica colturale antiquata.
Lavorazioni, i criteri agronomici
Chiusa la parentesi sulla forza della tradizione è opportuno schematizzare le principali motivazioni agronomiche delle lavorazioni:
a) protezione, tramite interramento, della sostanza organica da una mineralizzazione troppo rapida, per favorirne la trasformazione in humus;
b) favorire gli scambi gassosi con l’atmosfera;
c) nei suoli compatti, favorire la percolazione profonda delle acque meteoriche.
Il primo obiettivo presuppone che la lavorazione non si spinga troppo in profondità per evitare che la decomposizione dei residui colturali avvenga in ambiente povero di ossigeno senza formazione di humus. La profondità ottimale varia in relazione a temperatura, umidità e tessitura del suolo: in ambienti caldi e aridi si può interrare la sostanza organica a profondità maggiore, mentre in ambienti, freddi, umidi e con terreno sabbioso, si potrebbe anche lasciare i residui a decomporsi in superficie.
Il secondo scopo segue più o meno le stesse regole, anche se richiede una limitata frantumazione delle zolle per far sì che gli scambi gassosi si protraggano nel tempo. La percolazione delle acque richiederebbe una profondità di lavoro superiore a quella delle normali lavorazioni: gli utensili dotati di un profilo orizzontale – anche una semplice zappetta – tendono a costipare in qualche misura lo strato sottostante, creando uno strato poco o per niente permeabile. In tal caso la lavorazione deve rompere lo strato impermeabile, creando una serie di fratture con andamento verticale o obliquo tale da favorire lo sgrondo delle acque; per evitare una deformazione plastica è preferibile intervenire con terreno secco e ancore inclinate.
La deformazione plastica viene sfruttata per il drenaggio temporaneo (a talpa) realizzato con ancora verticale, scalpello cilindrico e ogiva tale da creare una galleria di terreno costipato per fare scorrere l’acqua verso il fosso, come avverrebbe con un dreno tubolare. Ma mentre il drenaggio ha la funzione di portare l’acqua fuori dal campo, con la percolazione profonda l’acqua scende in verticale andando a ricaricare la falda: se questa è troppo superficiale è preferibile il drenaggio, asservito ad una rete di bonifica efficiente. Quando la funzione è la sistemazione idraulica, si esce dal concetto di lavorazione, che interessa sì il ciclo dell’acqua, ma con finalità esclusivamente agronomiche.
Un esempio di funzione mista, ormai abbandonata, era quello dell’aratura oltre 50 cm (fino a 60-65) che aveva l’obiettivo di creare nei terreni fortemente argillosi uno strato imbevuto d’acqua durante la stagione invernale: una sorta di falda sospesa che doveva aiutare le colture estive. Questa specie di scasso, più che una vera aratura, era venuta in auge grazie ai cingolati disponibili a partire dalla metà del secolo scorso, con masse di 15-20 e più tonnellate: con una sezione lavorata superiore a 1,2 mq lo sforzo di traino poteva superare i 15-20.000 Newton.
Fino a quando il costo dell’energia lo ha consentito, questa tecnica è stata a lungo praticata trovando numerosi sostenitori. Questi fattori, non sempre visibili, sono stati per lungo tempo attribuiti a fattori più tangibili, come la profondità di lavoro, tanto che i contoterzisti arrivarono a fregiarsi del motto latino “altus sulcus copiosae fruges”, che legava l’abbondanza di prodotto alla profondità dei solchi.
La nascita dell’idea dei due strati
È con la crisi energetica degli anni Settanta che iniziarono a diffondersi tecniche di lavoro meno dispendiose: se la profondità serve per favorire l'assorbimento dell'acqua e se l'interramento di residui e fertilizzanti deve avvenire vicino alla superficie, perché non scindere queste due fasi? Nacque proprio allora – in Italia su impulso di Michele Cera e di Giuseppe Pellizzi – l’idea della lavorazione a doppio strato: fessurazione profonda, ma senza portare il terreno in superficie, combinata con l’aratura leggera, limitata al solo strato attivo a contatto con l’atmosfera. La tecnica aveva mostrato risultati incoraggianti, tanto da avvicinare numerosi contoterzisti alle arature superficiali, eseguite con aratri polivomeri, ma l’accoglienza del mercato fu tiepida e dovuta a una combinazione di fattori economici (reali) e di ataviche resistenze al “nuovo”. In effetti, con i mezzi di trazione di allora, capaci di realizzare grandi sforzi (grazie ai cingoli metallici) a bassa velocità, i tempi di lavorazione si mantenevano piuttosto alti per entrambe le lavorazioni.
La ripuntatura doveva scendere al di sotto della precedente suola di lavorazione, quindi ad almeno 70-75 cm; l’aratura veniva eseguita con aratri monodirezionali, impiegati secondo la tecnica “a colmare” e “a scolmare”, a profondità comunque piuttosto elevata. Il costo delle due lavorazioni – ripuntatura profonda e aratura entro i 40 cm – era analogo a quello dell’aratura profonda; per la riduzione delle zolle si poteva omettere il passaggio con il frangizolle, ma la preparazione del letto di semina impiegava le stesse macchine (erpice rotante e fisso). Si noti che all’epoca la preparazione del terreno era simile fra le diverse colture: per il frumento dopo barbabietola spesso si arava, anche per “rimettere a posto” la terra, calpestata dal passaggio di macchine dotate di pneumatici ad alta pressione.
I motivi della scarsa diffusione
I ripassi dopo lavorazione principale (o dopo il passaggio del frangizolle nei terreni più difficili) erano affidati a zappatrici o, per i contoterzisti che puntavano su una maggiore produttività oraria, sugli erpici rotanti: macchine capaci di affinare qualunque cosa, ma con consumi importanti. La mancanza di un risparmio significativo rispetto all’aratura profonda e l’alta considerazione di cui questa ancora godeva presso gli agricoltori portarono a relegare la lavorazione a due strati fra quelle di “serie B”, una sorta di ripiego rispetto alla gestione “ottimale” del terreno. Un ragionamento sbagliato, che si fondava su principi erronei e si serviva di macchine tecnicamente superate:
1. l’aratro convenzionale carica il vomere di un notevole sforzo verticale che compatta lo strato inferiore, creando una “suola” impermeabile;
2. nel caso dell’aratura entro solco (con i gommati) la costipazione viene accentuata dal passaggio della ruota, ulteriormente caricata dallo spostamento del baricentro dovuto all’assetto inclinato verso il solco;
3. la ripuntatura deve forzatamente scendere a grande profondità (almeno 10-15 cm oltre quella di aratura) per tagliare la suola, puntando sul taglio verticale (con deformazione plastica) piuttosto che sulla fessurazione;
4. la riduzione delle dimensioni delle zolle era affidata in parte allo schiacciamento delle stesse con rulli dentati, e talvolta a nuovi tagli orizzontali (zappatrice).
La forma della fetta tagliata dall’aratro per arature profonde ha una ridotta larghezza e un notevole sviluppo in altezza, caricando il vomere della resistenza al taglio e della componente verticale dello sforzo di sollevamento e rovesciamento della fetta. La ripuntatura era eseguita pensando allo sgrondo delle acque, con ancora verticale, piuttosto che inclinata, che avrebbe invece favorito la fessurazione verticale e orizzontale. Il sollevamento del suolo che ne derivava era considerato un grave inconveniente, che l’aratura non sarebbe stata capace di correggere, lasciando un profilo superficiale irregolare.
Lo sviluppo di tecniche più semplici
Se questo tipo di lavorazione a due strati è caduta nell’oblio, altre versioni più semplici hanno avuto il merito di aiutare la conoscenza, prima, e la diffusione, in seguito, delle tecniche di minima lavorazione, attraverso successivi passaggi:
a) lavorazioni combinate pesanti: ripuntatore ad ancore inclinate con puntale a scarpa, seguito, nella stessa passata, da utensili rotativi azionati; la profondità toccava i 50-60 cm con le ancore e 15-20 cm con gli utensili rotanti su asse orizzontale;
b) lavorazioni combinate leggere: estirpatore ad ancore ricurve collegato a erpice rotante a denti verticali, con profondità di 40-50 cm per il primo e 10-15 cm per l’erpice;
c) lavorazioni combinate a utensili non azionati: anche in questo caso la macchina era ancora costituita di due corpi accoppiati, per consentire l’allestimento con erpici a dischi, ad ancore, a denti fissi, elastici o folli;
d) lavorazioni combinate in unica macchina a ranghi multipli, in configurazione trainata e quindi con minori vincoli in fatto di massa e dimensioni.
La prima configurazione apparve negli anni Ottanta in seguito alla diffusione dei primi gommati con potenza intorno a 180-200 cavalli, che resero possibile l’impiego di combinazioni molto pesanti senza ricorrere ai costosi articolati di provenienza americana. L’impiego sempre più esteso dei gommati, saliti nel frattempo di potenza (240-260 hp), consentì l’impiego di combinati con macchine rotative articolate: alle limitazioni di velocità si sopperì con l’aumento della larghezza di lavoro. In entrambi i casi, la combinazione delle due lavorazioni riduceva notevolmente il costo della preparazione del letto di semina, contribuendo in misura significativa a diffondere il concetto che per le colture meno esigenti, come quelle a semina autunnale, l’aratura non era più un obbligo.
Nonostante gli agronomi propugnassero da anni la tesi che l’inversione degli strati non fosse poi così importante per ottenere buone produzioni, fu proprio la lavorazione a doppia profondità, senza aratura, a convincere anche gli agricoltori più legati alla tradizione. In realtà l’aratura conserva una propria utilità quando si vogliono inattivare i semi delle infestanti e le forme svernanti di vari patogeni, purché svolta con gli aratri adatti. Nei polivomeri concepiti per arare in superficie (30-35 cm), la sezione piatta riduce il carico sul vomere, limitando la formazione della suola; il minor sforzo di trazione consente di “centrare” l’aratro rispetto al trattore, evitando di lavorare entro solco; la sostanza organica viene interrata alla profondità migliore per la trasformazione in humus.
Dove invece il controllo delle infestanti è affidato ad altre tecnologie (erbicidi, cover crop ecc.) si può rinunciare all’aratura ed eseguire la lavorazione con attrezzature a ranghi multipli, che nella maggior parte dei terreni si comportano bene. Le ancore anteriori consentono infatti di dissodare il terreno e favorire la percolazione delle acque, mentre il passaggio degli altri ranghi di utensili lo affina a un livello tale da non richiedere, di norma, ulteriori passate prima della semina. L’assenza di utensili azionati consente di operare ad alta velocità e di ridurre le dimensioni delle zolle a qualche centimetro nello strato in cui verrà poi deposto il seme. Con gli attuali costi dell’energia le lavorazioni a due strati stanno riscoprendo una nuova vita, perché consentono di tenere aperta la via alla percolazione profonda delle acque in eccesso, seppure con una notevole velocità di esecuzione che riduce costi e consumi.