Mentre ancora si discute sulla possibilità di inserire le imprese agromeccaniche fra i soggetti che possono beneficiare dei programmi regionali di sviluppo rurale, le Regioni, nella corsa per arrivare prime, hanno frettolosamente liquidato la materia, sotto l’evidente pressione di chi teme che la coperta si accorci.
Pochi Assessori regionali hanno saputo mantenere la calma e si sono realmente letti il regolamento, che ammette ai fondi per lo sviluppo rurale anche le imprese definite “non agricole” dal diritto comunitario, ma che operano direttamente a supporto della produzione agricola.
Come ha sottolineato lo stesso Paolo De Castro, che ha avuto un ruolo importante nella definizione di ciò che può o non può rientrare nelle previsioni di stanziamento del FEASR, spetta alle Regioni, se vogliono, di definire quali possano essere i beneficiari, attivando le relative misure nei propri Piani di Sviluppo Rurale.
Non stanno quindi in piedi, per chi ha voluto chiudere in fretta la partita, le attribuzioni di responsabilità al Ministero delle Politiche Agricole, all’accordo di partenariato con la Commissione Europea, o ai burocrati di Bruxelles, che hanno male interpretato la norma comunitaria.
Una scelta politica, quella fatta dagli assessorati regionali, la cui responsabilità ricadrà soltanto su di loro: responsabilità per non avere voluto attivare le misure che consentono di aumentare l’efficienza delle risorse comunitarie, oltre che per avere cercato di mantenere lo status quo.
Un equilibrio, questo, destinato presto a rompersi in sede di attivazione dei futuri bandi regionali: facendo tesoro delle distorsioni introdotte nel passato, il legislatore comunitario ha voluto circoscrivere i benefici entro limiti più precisi e con vincoli più severi.
Resta però lo scoglio dell’efficienza che non c’è: ha prevalso la logica distributiva, contro quella della produttività delle risorse erogate, che è destinata a manifestare i suoi effetti negativi sull’intero sistema produttivo.
Le statistiche pubblicate dall’Istat, da Nomisma e da Inea, mostrano come l’impresa agromeccanica sia diventata, nel tempo, il partner ideale dell’azienda agricola, in grado di completare la meccanizzazione aziendale in quei settori ove più importante è l’innovazione tecnologica, oltre che su operazioni chiave, come le lavorazioni del terreno a basso impatto ambientale, la semina su sodo, la difesa fitosanitaria e la raccolta assistite da guida satellitare.
Investire 50.000 euro su 10.000 aziende agricole (7 ettari in media, secondo l’Istat) significa spendere mezzo miliardo per soli 70.000 ettari, appena l’1% della superficie agricola nazionale, con effetti che saranno scarsamente visibili anche a livello statistico.
Ragionando per assurdo, se gli stessi contributi venissero spesi a favore delle dodicimila imprese agromeccaniche operanti in Italia, si tradurrebbero in un apporto di innovazione in grado di coprire l’intero territorio nazionale, con un costo ad ettaro trascurabile ed un’altissima efficienza economica sul sistema.
Un conto, infatti, è sprecare risorse per interventi puntiformi, che interessano poche aziende (rispetto al milione di imprese agricole censite), con un effetto trascurabile sul territorio, e un altro è diffondere capillarmente l’innovazione, la tecnologia e la sostenibilità anche a quelle aziende agricole che, per mancanza di mezzi o per scarsa propensione agli investimenti, rimangono tagliate fuori dai processi evolutivi.
Ma, evidentemente, prevale nelle politiche regionali il concetto della distribuzione del denaro a pioggia, dei micro interventi sparsi sul territorio – troppo sparsi per fare sistema – tenuto conto che i benefici della programmazione regionale risultano raggiungere solo una minima percentuale delle aziende esistenti.
Un’agricoltura che non fa innovazione, che spreca le risorse, che vuole mantenere lo stato delle cose, non va da nessuna parte, e rimarrà ancor di più la cenerentola del sistema.
Qui sta il vero problema, più strategico che economico: se i fondi per lo sviluppo rurale vengono spesi male in Italia, e bene nel resto d’Europa, oltre a risentirne l’intero sistema produttivo, condanneremo il nostro Paese ad essere sempre più marginalizzato, e debole, nel panorama europeo e mondiale.