Gran bella cosa la globalizzazione: basta coi dazi, con le barriere doganali, con le gabelle sui trasferimenti di beni, e via con l'apertura al libero mercato, attuati a partire dagli Novanta in risposta agli accordi del Wto.
Un sogno, dopo un secolo dominato da utopie populiste, da gretti nazionalismi e da tentazioni autarchiche, che ci ha proiettato nel terzo millennio con prospettive di libertà e di indipendenza, anche sul piano economico. Ma sono bastati pochi anni per farci comprendere che non è tutto oro quello che luccica e che la globalizzazione, accanto a concrete prospettive di sviluppo, è destinata ad evidenziare le differenze, gli squilibri e le disuguaglianze. Un duro colpo alle romantiche visioni economiche del ventesimo secolo, ma anche ai valori che hanno ispirato la crescita – in senso lato – della cultura occidentale. Una cultura che, a dispetto di qualche rigurgito radicale, è ancora fondata su valori derivati dal Cristianesimo, sullo sviluppo armonico della società civile, sull'equilibrio fra interessi economici e valori umani, sul pluralismo democratico che ancora contraddistingue la civiltà europea.
Vogliamo rinunciare a questo modello di sviluppo? Vogliamo ridurre la dimensione umana al “vuoto” materialismo, indotto dal più sfrenato liberalismo economico? Facciamolo pure: ma pensiamo a cosa troveremo sul nostro cammino e a cosa ci lasciamo dietro. Dobbiamo riflettere, al di là degli slogan, sul concetto di “libero mercato”: è una libertà che non lede quella altrui, o piuttosto nasconde una nuova forma di sfruttamento, in cui vige la legge del più forte, seppure in senso economico? La storia ci insegna infatti che gli ideali sono stati spesso presi a prestito per nascondere i più inconfessabili interessi economici, di questo o quel “potente”.
Vista con occhio critico, anche la globalizzazione mostra i suoi difetti: i Paesi che appena qualche anno fa inondavano i nostri mercati di prodotti a basso costo, oggi vengono a fare shopping nella ex ricca Europa, sottraendoci conoscenze e tecnologie di inestimabile valore strategico e storico – culturale. Sono Paesi che sarebbe arduo definire democratici: anche se la parola “dittatura” è stata da tempo espunta dal vocabolario del “politicamente corretto”, che ne sarà dei nostri valori quando dovremo confrontarci con poteri per i quali la vita umana conta come un granello di polvere? Non dobbiamo perdere in questo frangente il nostro equilibrio, la forza delle nostre idee, i valori che stanno alla base della nostra cultura e della nostra società; ma nemmeno svendere la nostra storia.
A pochi mesi dalla chiusura di Expo, ritorna prepotentemente alla ribalta l'imperativo di nutrire il pianeta, tradito da una manifestazione ormai dimenticata. Eppure senza agricoltura non si va avanti: e ben lo sanno coloro che, dietro la maschera di un nuovo capitalismo, cercano di accaparrarsi le risorse alimentari sulle quali si giocheranno i futuri equilibri mondiali. Siamo un Paese di grandi eccellenze alimentari, ma non sappiamo valorizzare efficacemente i nostri prodotti, al di là della semplice etichetta; non sappiamo spiegare ai consumatori che il cibo è il prodotto di una cultura, prima ancora che di una coltura, è espressione di una società in cui conta certamente l'economia, ma anche i valori. Se improbabili ristoranti esotici fanno il tutto esaurito, se sugli scaffali dei supermercati prevalgono prodotti anonimi (anche se di marca) senza alcuna connessione col nostro territorio, dobbiamo chiederci se stiamo sbagliando qualcosa. D'altra parte, se non educhiamo i consumatori a interpretare cosa c'è dietro ad un prodotto agricolo, in termini di rispetto dei valori che tutti pretendono, della dignità della vita umana, della compatibilità sociale, saremo destinati ad essere schiacciati dagli effetti perversi del mercato globale: si venderà sempre e solo ciò che costa meno, magari prodotto in contesti dove libertà, democrazia, rispetto della persona e dell'ambiente, sono solo vuote parole.
La qualità è anche questo: si possono produrre alimenti sani e a costi contenuti solo razionalizzando le strutture agricole, cercando una competitività economica che sia compatibile con l'ambiente, con la tutela di chi lavora e con la salute di chi mangerà quel prodotto. Una sfida che le imprese agromeccaniche, da sempre avvezze al libero mercato, sono pronte a raccogliere, garantendo all’agricoltura qualità, competitività e compatibilità sociale ed ambientale. Una sfida giocata sulla professionalità, sulla capacità organizzativa, sull'inventiva e sull'apertura al mondo esterno, alle innovazioni tecnologiche e al rischio d'impresa, più che su labili promesse di incentivi che, in altre realtà aziendali, sembrano avere fallito l'obiettivo.