La vicenda del tentato ripristino della tassazione sui redditi fondiari, esclusa dal governo Renzi nel 2017 per tutti i contribuenti iscritti alla previdenza agricola, aveva solleticato l’opinione pubblica a riflettere sulla consistenza dei voti del settore agricolo e all’imminente scadenza referendaria. Come poi la storia ha rivelato, il referendum non c’entrava nulla, dato che i governi successivi hanno continuato a prorogare il provvedimento che consente agli agricoltori “professionali” di azzerare i redditi dominicali e agrari e di non pagare imposta.
Grazie al provvidenziale intervento attuato in sede di conversione del decreto “Milleproroghe”, per i prossimi 2 anni i redditi fondiari (dominicale e agrario) non sono imponibili se inferiori a 10.000 euro, e vengono computati al 50% se non superano i 15.000 euro. I redditi più elevati – posseduti da meno del 10% degli agricoltori – rimangono quindi imponibili, seguendo il principio costituzionale della gradualità del prelievo fiscale, che dovrebbe colpire i più ricchi: ma forse sarebbe stato meglio distinguere fra proprietari e affittuari. A parità di reddito imponibile le condizioni patrimoniali sono ben diverse: il proprietario non ha il costo degli affitti, che gravano invece sull’affittuario, mentre una proprietà di 100 ettari ha un valore di realizzo ben diverso dalle “scorte vive e morte” di un’azienda in affitto.
Il provvedimento vuole andare incontro alle aziende agricole di minori dimensioni, quelle che più risentirebbero di una tassazione a forfait – come quella catastale – che non tiene conto della reale dinamica dei costi e della marginalità. Bisogna dire che parte di questi redditi sarebbe stata comunque esente, perché l’agricoltore può detrarre i contributi pagati – da 1.221 a 5.524 euro per il 2023, a seconda della fascia di reddito e della categoria – ma l’intervento del legislatore è più efficace e risolutivo. Ancora una volta ha prevalso il concetto che l’agricoltura, quale attività esposta in prima persona ai rischi climatici, alle speculazioni del mercato globale e alle periodiche infestazioni da parte di parassiti “alieni”, meritasse un ristoro almeno sul piano fiscale.
Provvedimento non equo
Un provvedimento giusto e condivisibile, ma non certamente equo: l’agricoltore che paga l’Inps come artigiano, commerciante, dipendente o libero professionista paga le tasse; quello che paga i contributi come Iap o coltivatore diretto, non le paga. Una situazione anomala, perché entrambi fanno lo stesso lavoro e corrono gli stessi rischi, che si spiega con lo squilibrio finanziario della previdenza agricola, che conta su pochi contribuenti a fronte dei tanti che godono del trattamento di pensione. Gli altri soggetti che operano nelle filiere agricole, dai fornitori di beni e servizi alle imprese agromeccaniche, sono soggetti a un regime fiscale ben più oneroso di quello catastale, che non fa sconti a nessuno, neppure se la produzione viene danneggiata da calamità e catastrofi.
Questa disparità di trattamento, unita al clamore mediatico sollevato dalla protesta agricola (che esprime un dissenso di ben più ampio respiro), sta contribuendo ad allargare il solco già esistente fra chi fa agricoltura e chi fa altro, con risultati complessivamente negativi. Per una parte della popolazione l’agricoltore è un potenziale nemico dell’ambiente ed esistono forze politiche che, quando vogliono parlare di “agricoltura”, invitano l’industria di trasformazione, la grande distribuzione e i movimenti ambientalisti, ma ignorano gli agricoltori veri.
La disputa sulla tassazione, un problema tutto sommato marginale dinanzi alle vere esigenze del settore primario, è stata strumentalizzata da chi alimenta il mito di un’agricoltura “contro”, contro lo Stato, contro la società civile, contro l’ambiente e la salute: forse si poteva fare di meglio.